Tremila chilometri. È la lunghezza del tragitto che compiono quotidianamente le migranti centro e sudamericane per arrivare negli Stati Uniti. In mezzo il Messico, dove tra sequestri, treni merci e sfruttamento sessuale l'”american dream” che tanto sognano si trasforma in un “american nightmare”
Una volta l'uomo aveva un'anima e un corpo, oggi ha bisogno anche di un passaporto, altrimenti non viene trattato da essere umano. [Stefan Zweig]
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Nei pressi di Contepec (Stato di Michoacán, Messico) - «Così finiscono gli stupratori» diceva il cartello che gli hanno trovato appeso al collo. Lui era Eladio Martinez Cruz[1], 24 anni, accusato di violenza sessuale. Il suo corpo è stato trovato, privo di vita e con i genitali tagliati, nei pressi di Contepec, nello stato messicano di Michoacán. Il suo nome sarà presto dimenticato, molto più difficile sarà dimenticare il modo in cui è stato ritrovato. Dallo scoppio della guerra tra e contro i cartelli della droga, iniziata nel 2006 dall'ex presidente Felipe Calderón Hinojosa, il Messico si è in qualche modo abituato a tutta una serie di rituali di comunicazione come i narcomantas, gli “striscioni” posti sui ponti stradali con i quali i cartelli si parlano, spesso accompagnati da qualche (presunto) traditore impiccato a monito generale. Non si sa se questo omicidio ricada nella fattispecie. Quello che è sicuro è che Eladio Martinez Cruz sarà ricordato come il primo uomo crocifisso per stupro.
Crocifisso per stupro. Eladio Martinez Cruz, accusato di stupro, viene rinvenuto crocifisso
ad un cartello stradale nei pressi di Contepec, nello stato di Michoacán, Messico.
fonte: forum.egcommunity.it
Un'immagine questa che ha fatto molto scalpore, quanto meno sui media italiani.
Un cimitero di contraccettivi. Scalpore inferiore, se non addirittura indifferenza, suscitano altre croci. Come le 19 che – emulando le Madres argentine - lo scorso febbraio tenevano in mano 26 donne salvadoregne[2], madri di persone scomparse lungo il tragitto che dal loro paese avrebbe dovuto portarli negli Stati Uniti, come gli altri 200.000 centroamericani che, recitano i dati dell'Instituto Nacional de Migración, attraversano il Messico per entrare illegalmente nel paese dell'opportunità per tutte e tutti, per prendersi il loro pezzo di “american dream” che per molti si trasforma in un incubo.
Preservativi e Depo-Provera, lungo i 5.000 chilometri che intercorrono tra la frontiera sud e quella nord del Messico, sono per le migranti gli unici compagni di viaggio su cui fare reale affidamento. Tra una frontiera e l'altra può succedere davvero di tutto, in special modo incappare nelle aggressioni che per migranti donne e transessuali significa subire abuso sessuale e per chi queste aggressioni le fa – autoctoni o lavoratori di quelle zone - un guadagno che varia da qualche spicciolo a qualche migliaio di pesos, con la polizia che spesso guarda ma non vede.
Aggressioni che in molti casi sfociano in veri e propri sequestri. «Il protocollo abituale» - dice Edu Pones, fotografo di Ruido Photo che ha partecipato al progetto En el Camino - «è dividere i migranti quando vengono sequestrati: quelli che hanno famiglia negli Stati Uniti e possono contattarli per chiedere il riscatto sono inviati nella sala uno, quelli che hanno famiglia ma non possono contattarli nella sala due. Non si sa cosa capiti a chi non ha famiglia negli Stati Uniti e non può pagare».
Consce della più che concreta possibilità di ciò – secondo il governo guatemalteco otto donne su dieci subiscono violenza di questo tipo durante il viaggio, sei su dieci secondo il governo messicano – donne e transessuali tentano di tutelarsi non solo facendo scorta di preservativi o trovando maridos,(facendosi così proteggere da uno degli uomini che viaggiano con loro in cambio di favori sessuali), ma negli ultimi tempi forte è diventato l'uso di quella che ormai è definita “l'iniezione anti-Messico”, il Depo-Provera appunto, un anticoncezionale da iniettarsi composto esclusivamente da un ormone, la medroxiprogesterona, che impedisce l'ovulazione per tre mesi, con un'efficacia che arriva al 97% ma che non protegge da malattie quali l'AIDS o altre a trasmissione sessuale.
E poi c'è chi, per scelta o per impossibilità nel continuare il viaggio fino alla fine, viene più spesso costretta ad utilizzare il proprio corpo come merce lungo il tragitto o in uno dei bordelli delle zone di tolleranza (quartieri a luci rosse) nel sud del Messico, locali spesso in mano ai potenti cartelli della droga e punti di transito per la tratta a fini di sfruttamento sessuale.
Cuerpomátic. Soldi e speranza. Sono questi i due chiavistelli con i quali, dall'America Centrale passando per la Nigeria o i paesi dell'Est Europa, si muove quella parte del traffico di esseri umani che prende il nome di tratta.
«La maggior parte lavora come cameriera» - dice Luis Flores, delegato dell'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni - «Dopodiché iniziano a lavorare come ficheras e poi finiscono prostituendosi, generalmente arrivano a questo punto con l'inganno». Non tutte, naturalmente, perché anche nel mercato del sesso – come in tutti i mercati capitalisti che si rispettino – esistono delle caratteristiche a cui non si può derogare. Innanzitutto l'età: «dai 10 ai 35 anni, difficilmente di più» - ha scritto l'investigatore Rodolfo Casillas in “La trata de mujeres, adolescentes, niños y niñas en Mexico, un estudio esploratorio en Tapachula”- «anche se il problema della tratta coinvolge maggiormente le minorenni, quelle che vanno dagli 11 ai 16 anni di età». Secondo Flores e Casillas, inoltre, le donne migranti dall'Honduras e da El Salvador (che insieme al Guatemala rappresentano i tre principali paesi di origine del flusso migratorio) sarebbero più richieste perché di carnagione meno scura rispetto alle donne messicane, tanto che ormai da anni sui media si parla tranquillamente di “tratta delle bianche”.
A diverse età e carnagione corrisponde un prezzo diverso, che varia dai 400 pesos per una ragazza considerata “vecchia” - e che a mala pena arriva ai 30 anni – fino ai 2.000 per una minorenne dalla pelle bianca. Cifre che, tradotte in euro, significano un prezzo compreso tra i 24 ed i 120 euro.
Luis Flores la chiama cuerpomátic: «Si riferisce alla carne come carta di credito con la quale si può avere sicurezza nel viaggio, un po' di denaro, che non uccidano i tuoi compagni, un viaggio più comodo nel treno»[3].
Del corpo di una migrante si fa lotteria, parafrasando De André.
Tutto però parte qualche centinaia o qualche migliaia di chilometri più a sud, dall'altro lato della frontiera.
Stando a quanto sostiene padre Alejandro Solalinde - coordinatore del Centro pastorale cattolico di cura per migranti e direttore di un rifugio a Ixtepec - dietro a tutto l'indotto della tratta – dal controllo dei locali a quello dei coyotes o delle reclutatrici (artefici di quello che Flores chiama l'effetto spirale) c'è il più potente dei cartelli della droga messicana: quello dei Los Zetas che, dice Óscar Martinez, giornalista autore di Los inmigrantes que no importan: «hanno convertito il sequestro dei migranti in un business, dove le donne sono obbligate a prostituirsi e marchiate con un tatuaggio della propria organizzazione (come si fa con le droghe, ndr), come se fossero state vinte, affinché nessuno possa usarle. Un business nel quale il crimine organizzato si converte in Stato, con la protezione delle istituzioni».
Secondo molti degli addetti ai lavori, la “mafia dei trafficanti” sarebbe addirittura più potente dei già potentissimi cartelli della droga.
Un viaggio che, per i giovani, non è solo uno spostamento fisico da un punto A ad un punto B. È, come racconta il giovane sociologo Damien Rios – che ha viaggiato insieme ai migranti – un passaggio dall'età adolescenziale a quella adulta.
Salita agli inferi. Il viaggio inizia per la maggior parte delle e dei migranti a Tecùn Umàn, in Guatemala. 3.000 chilometri a sud della destinazione finale.
A questo punto, all'altezza del rio Suchiate, per 10 pesos e sotto gli occhi della polizia di frontiera che sorveglia il ponte distante qualche centinaio di metri, un migliaio di migranti al giorno passano il confine a bordo di zattere di fortuna, formate da camere d'aria e tavole di legno per poi arrivare a Ciudad Hidalgo, nello stato del Chiapas, da dove passa la maggior parte dei migranti.
Da qui, il primo degli innumerevoli viaggi in autobus con il quale, dopo poche ore, si arriva a Tapachula, la città più meridionale del Messico e città chiave nei rapporti commerciali con il Guatemala. È lungo questa linea, che da Tecùn Umàn porta a Tapachula attraverso Ciudad Hidalgo, Cacahuatán o Huixtla che si iniziano a registrare i primi abbandoni, o le prime desaparizioni.
Tapachula, vita da fichera. La loro compagnia si compra 65 pesos alla volta, il prezzo di una fiche o di una birra. Niente birra significa niente compagnia, anche di natura sessuale.
È così che si ragiona nel mondo delle ficheras, le ragazze che animano le notti nelle zone di tolleranza del Messico. Honduregne, guatemalteche, nicaraguensi; pochissime le messicane. Tutte, comunque, prive di documenti. Dopo aver accettato l'idea di essere stuprate durante il viaggio, la paura principale per loro non è costituita da clienti violenti – a tenerli lontani ci pensano i membri dei cartelli – ma dall'Immigrazione, lo spauracchio con il quale i gestori di questi locali soggiogano le ragazze. È anche per questo che le denunce sono ridotte al minimo, «sono ragazze innocenti, senza educazione, che non sanno come denunciare e sono facili da minacciare» dice Flores.
“Chiamare l'Immigrazione” significa tornare in situazioni impossibili da sostenere come quella di Érika [nome di fantasia, ndr], scappata dall'Honduras a 14 anni, dopo due gemelli avuti da uno stupro e nove anni passati in strada a vendere legna e pesce. Se non vendeva tutto, l'attendevano i cavi elettrici con i quali veniva picchiata dalla donna a cui la madre l'aveva affidata.
La tratta – che è una cosa diversa dalla scelta di prostituirsi “nel pieno possesso delle proprie facoltà” - è poi favorita anche dalla burocrazia dei paesi di origine delle vittime, che siano quelli centroamericani o quelli africani. O, per meglio dire, dall'assenza di burocrazia. Molte vittime, infatti, vengono da paesi nei quali non esistono atti di nascita, e questo favorisce qualsiasi forma di mercificazione del loro corpo, da quello per sfruttamento sessuale e lavorativo all'uso dei minori come falchi o muli per i cartelli della droga fino al traffico di organi. In molti casi, ha evidenziato Arun Kumar Acharya dell'Istituto d'Indagine Sociale dell'Università Autonoma di Nuevo León durante una conferenza tenutasi sul tema agli inizi di settembre[4], le donne vittime di sfruttamento sessuale non trovano nessuna alternativa per poter uscire da quel mondo – per colpa, evidente, della miopia istituzionale, nonostante in Messico sia stata fatta una “legge generale contro la tratta” – venendo spostate da una zona all'altra del Paese, rendendo praticamente impossibile riconoscere casi di sfruttamento.
The
lost girls – Ramita Navai, Unreported World,
[clicca sull'immagine per guardare il video, in inglese]
Per chi è costretto a lavorare in questi bordelli, dopo un po' arriva l'abitudine, ed il corpo – così come il sesso – perde qualsiasi forma di “proprietà”, diventando un non-luogo, seppur abitato, per dirla con l'antropologo francese Marc Augé.
Da Tapachula alla prossima tappa del viaggio migrante – Arriaga, sempre in territorio chapaneco – mancano 250 chilometri, che i migranti percorrono per lo più in autobus, scendendo e salendo almeno cinque volte (tanti quanti sono i posti di blocco istituiti dal 2005, da quando cioè un uragano ha bloccato la via dei treni, che ora si prendono più su.
È proprio ad una di queste fermate, prima di arrivare al posto di blocco di El Hueyate, 45 chilometri a nord di Tapachula che si entra nell'inferno.
Attraversando l'Inferno. La Arrocera, nel municipio di Huixtla, ancora territorio chiapaneco, un nome che pur indicando solo i pochi ettari del vecchio deposito di riso dal quale prende il nome nell'immaginario migrante costituisce una zona di 262 chilometri di cammino. Nell'immaginario migrante, inoltre, La Arrocera è diventato uno dei tanti nomi con cui chiamare l'Inferno.
Questo è infatti il punto più pericoloso di tutti i 3.000 chilometri di viaggio.
Gli aggressori, spesso autoctoni o lavoratori di quella zona muniti del machete che usano come strumento di lavoro, nel corso degli anni si sono accaniti contro i migranti proprio per il loro status di “temporaneità”, convinti che – essendo questi di passaggio – i danni siano ridotti al minimo, come effettivamente succede.
I pochi assalitori arrestati vengono spesso inviati al carcere di El Amate, il più grande centro di reclusione del Chiapas sul quale lo Stato non ha però alcuna giurisdizione. A comandare sono i narcos, che chiedono il pizzo ai nuovi arrivati e non permettono agli agenti né ad altra autorità diversa dalla loro di entrare nelle sezioni delle celle. La manovalanza – “scassapagliare”, per dirla con Pippo Fava – è servita su un piatto d'argento.
Il governo dello Stato del Chiapas ha deciso di muoversi solo due anni fa, nonostante le ormai decennali denunce delle organizzazioni della società civile.
Nel 2009 i Ministri degli esteri di Guatemala ed El Salvador furono invitati a seguire parte del viaggio, così che potessero tornare a casa e smentire la pericolosità del tutto. L'ingente spiegamento di forze dell'ordine utilizzate a loro protezione ebbe però un effetto simile all'esatto contrario.
Sul confine de La Arrocera si trova un altro dei punti più pericolosi dell'intero viaggio: El Basusero, una discarica a cielo aperto dalla quale i migranti passano per l'impossibilità di utilizzare il vecchio tratto ferroviario.
Uscire dall'inferno de La Arrocera però, non significa aver superato la parte più pericolosa del viaggio. Arrivati ad Arriaga, infatti, “la bestia” è in attesa.
La bestia, nome con il quale le ed i migranti chiamano i treni merci (chiamati anche “treni della morte”) sui quali salgono – letteralmente al volo – per proseguire il viaggio. Viaggiare sui tetti delle carrozze significa che una galleria troppo bassa o dei rami sporgenti possono costituire una seria minaccia. Dormire lo si fa a proprio rischio e pericolo, rischiando di cadere dal treno o di rimanerne mutilati.
Ci vogliono dodici ore di treno per arrivare ad Ixtepec, nello stato di Oaxaca. Qui si trova l'albergue para migrantes “Hermanos en el Camino” di padre Alejandro Solalinde Guerra, una delle prime fermate sicure.
Hermanos en el camino. Pur essendo uno dei più famosi, l'albergue di padre Solalinde – minacciato di morte per la sua opera di sensibilizzazione sui diritti dei migranti – il posto non è esattamente dei più comodi. Refettorio e cucina sono infatti all'aperto e le donne sono costrette a dormire sotto un tetto di paglia appoggiato su pareti di plastica, non essendo ancora concluso il padiglione loro destinato.
I treni, spesso, portano centinaia di migranti alla volta, ed i pochi letti a castello – una ventina in tutto – non riescono a dare ristoro a tutte e tutti. Materassi, cartoni e coperte diventano, all'occorrenza, letti più che soddisfacenti.
Padre Solalinde accoglie tutti, senza tener conto degli spazi materiali dell'albergue. L'idea di base, comunque, sarebbe quella di non ospitare i migranti per più di tre giorni, perché questi luoghi sono stati ideati solo come sostegno durante il viaggio. A nessuno viene in mente l'idea di tentare di far cambiare idea ai viaggiatori, nonostante i tanti coyotes - o polleros, cioè coloro che aiutano i migranti ad oltrepassare il confine e che, spesso, sono in combutta con cartelli o gruppi di aggressori che si aggirano lungo tutto il tragitto della “bestia”.
«Da quando, negli ultimi anni, i cartelli malavitosi hanno incrociato la loro strada con i flussi migratori è sempre più drammatica la violenza contro uomini e donne che decidono di attraversare il Messico per raggiungere gli Stati Uniti. I messicani devono reagire» - dice padre Solalinde, che ad agosto è stato costretto a fare i conti anche con gli alti vertici ecclesiali, che gli avevano gentilmente consigliato per voce del vescovo e pastore della diocesi di Tehuantepec, Óscar Armando Campos Contreras di dedicarsi ad una parrocchia e non ai migranti. «Non mi sembra evangelico. Mi è stato detto che il mio tempo libero lo dovevo dedicare ai poveri, ma ai poveri non dobbiamo dare gli avanzi. Perciò non accetto di prendere una parrocchia. Io posso lottare contro i cartelli ma non contro la Chiesa», ha risposto.
Medias Aguas, Tierra Blanca e poi su, fino a Lechería, a pochi chilometri da Città del Messico ed a 1800 dalla meta finale. Questo è probabilmente il tratto più lungo da fare, perché il tempo è scandito dal passaggio dei treni merci, e qualunque attività è buona per ingannare il tempo. Se si è fortunati si può prendere un treno dopo pochi minuti, se lo si è meno si può aspettare in questo non-luogo (per dirla ancora con Augé) anche due giorni. Unico sostegno le volontarie ed i volontari delle organizzazioni che distribuiscono cibo ed acqua come Beta o il collettivo La Patrona.
Arrivati qui, quando il viaggio non è neanche a metà, il peggio può dirsi scampato. Gli stati più pericolosi sono ormai alle spalle e la preoccupazione principale dei migranti – oltre a quella di trovare cibo e ristoro in qualche albergue – è trovare un paio di scarpe con le quali continuare il viaggio o riparare quelle, ormai sfondate, con le quali si è partiti.
Una volta pronti a partire, dopo aver curato i piedi feriti, le tendiniti o i dolori alle ginocchia divenuti anch'essi viaggiatori lungo il tragitto, le strade si dividono.
Da Tijuana a Matamoros, passando per Piedras Negras o il rio Bravo, le cui esondazioni dirottano i tentativi di passaggio verso la tristemente nota Ciudad Juárez: molti sono i punti attraverso i quali tentare di fare il salto finale, quello che porta negli Stati Uniti.
Rimane solo l'ultimo ostacolo. A questo punto le strade che si aprono sono due: procurarsi documenti falsi (8.000 dollari) e tentare di passare attraverso le dogane, con il rischio di aggiungere anche l'accusa di falsificazione di documenti oltre a quella di immigrazione clandestina (che porta al rimpatrio se al primo tentativo o ad una pena dai 5 ai 7 mesi se recidivi) oppure tentare di scavalcare il Muro. Secondo le organizzazioni a tutela dei migranti, dal 1994 – anno dell'operazione Guardiano – sono quasi 5.000 i migranti morti nel tentativo di attraversare. Tutti sono stati classificati come “migranti morti sconosciuti”. Desaparecidos, insomma.
Fortezza USA: più che una frontiera, una zona di guerra. 3.100 chilometri divisi in nove settori sorvegliati da satelliti, droni, torri mobili, telecamere a raggi infrarossi e più di duemila tra agenti della Border Patrol, Guardia Nazionale e volontari. Sulle loro teste, ogni venerdì pomeriggio alle 17, volano gli aerei che da El Paso rimpatriano i migranti messicani – circa 6.000 al mese – che hanno tentato di valicare la frontiera.
Uno spiegamento di forze che però sembra essere attento solo quando c'è da dare la caccia – letteralmente – ai migranti. Da quegli stessi posti, infatti, passano tranquillamente droga (dal Messico agli Stati Uniti), armi (dagli Stati Uniti al Messico, come ha portato alla luce l'operazione “Fast and Furious”[5]) e narcodollari, da ambo i lati.
Lasciati dietro la frontiera i problemi, le paure, le ansie del viaggio, negli Stati Uniti i migranti trovano in molti casi la disillusione – che è spesso una costante nei viaggi verso “il futuro migliore” - del rendersi conto che la vita “dorata” sognata lungo i 3.000 chilometri precedenti non è poi così dorata, così come il pericolo di essere non-identificati come latinos e indocumentados ed essere rinchiusi in centri di identificazione come quello di Houston o rimpatriati è dietro l'angolo.
Note
[1] Messico, accusato di stupro crocifisso in strada di Guido Olimpio, Corriere della Sera, 11 settembre 2012;[2] Madres salvadoreñas depositan ofrendas en "La Arrocera" di Julian de Dios García Davish, elsalvador.com, 11 febbraio 2009;
[3] Las esclavas invisibles di Óscar Martínez, http://enelcamino.periodismohumano.com, febbraio 2009;
[4] La trata de personas con fines de explotación sexual expande sus redes en todo México di Jaime Montejo, desinformemonos.com, settembre 2012;
[5] http://senorbabylon.blogspot.it/2011/04/obamas-mexicogate.html