Ogni tanto si riaccende il dibattito sulla Repubblica di Salò. L’occasione, questa volta, è data da alcuni manifesti apparsi per le strade di Roma e inneggianti i repubblichini con una frase tratta da una delle canzoni più rappresentative di Francesco Guccini, una canzone, fra l’altro che mi ha accompagnato da ragazzino, se pure è stata scritta un anno prima che io nascessi, e che, in questo senso, ricopre per me un significato particolare.
Sembrerebbe una provocazione, un tentativo di ritorcere una certa retorica comunista contro se stessa, invece no: questi sono proprio deficienti, hanno ascoltato il pezzo di Guccini e non ci hanno capito un cazzo; del resto non è la prima volta. In più di un’occasione mi è capitato di trovare frasi di canzone di Francesco Guccini male interpretate, se non stravolte, da personaggi di una certa frangia della destra estrema convinta di affondare le proprie radici in un substrato culturale che li eleverebbe al di sopra della “gente comune” che si fanno pregio di difendere col loro concetto di destra sociale. Del resto come dice lo stesso Guccini: - le canzoni sono là e la gente le prende a suo uso e consumo – resta il fatto che deve essere triste essere consapevoli di non avere alcun riferimento culturale meno che discutibile, al punto da doversi adattare ad utilizzare quelli degli altri.
Che poi, è bene ricordare che la repubblica di Salò fu una costruzione artificiale nazista realizzata nella stessa terra pregna di ignoranza che oggi foraggia il separatismo leghista, affidata al padre dei gerarchi fascisti e protetta da un esercito di torturatori coperti da simboli di morte che mai hanno combattuto per il bene dell’unità nazionale schierandosi volontariamente dalla parte sbagliata.