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Guernica contro tutti. Il bello e il gradevole nel giudizio kantiano di gusto. Parte 1/4

Creato il 30 gennaio 2014 da Criticaimpura @CriticaImpura

È possibile definire "bello" il noto dipinto cubista - surrealista Guernica di Picasso? È lecito propagandare il proprio estremo giudizio come il più autorevole, come il modello di uniformità di ogni possibile valutazione? Ma soprattutto, dispensandosi da ogni sentenza valutativa in merito al titolo dell'opera in questione, che cosa ci dice effettivamente la mera espressione "Guernica" riguardo all'indirizzo semantico del dipinto? Sarebbe altrettanto legittimo modellare interpretazioni personali esclusivamente sulla scorta della propria singola esperienza estetica, o forse vi è dell'altro da tenere in considerazione? Sembra chiaro, gli ultimi secoli di dibattito estetico - filosofico non hanno risolto il problema dello statuto ontologico della bellezza, nella fattispecie in ambito artistico, ma ancor più radicalmente, nulla è stato illuminato in relazione ai rapporti di causalità tra intenzioni originarie dell'autore - inoculate nell'opera d'arte - e conseguenti e, ahinoi, molteplici interpretazioni. È tuttavia necessario, prima di tentare di far brillare il problema di un'inedita luce, cercare di sciogliere alcuni nodi teoretici che si collocano alle fondamenta di qualsiasi esperienza che nutra la pretesa di definirsi estetica.

[...] Il giudizio di gusto non è perciò conoscitivo, e dunque non è un giudizio logico, ma estetico, con il che s'intende quel giudizio il cui fondamento di determinazione non può essere altro che soggettivo [...]

Così Kant nella Critica della capacità di giudizio, precisamente nel Libro dedicato all'Analitica del bello.

Kant, come sempre in modo lucido ed oltremisura sistematico, traccia una sorta di insieme matematico deputato ad annoverare in esso la categoria dei giudizi estetici, ossia tutte quelle valutazioni che basano la loro autorevolezza solo ed esclusivamente sulla soggettività dell'individuo giudicante: in altre parole quei giudizi che rivolgono il loro responso verso la categoria di oggetti estetici; (per il momento resti inviolata l'indagine in merito a quali possano essere effettivamente gli oggetti di riflessione ascrivibili in tale categoria).

Ciò che tuttavia risulta fondamentale rilevare è che il filosofo tedesco fornisce una determinazione del giudizio estetico tale per cui esso non apporta alcun contributo conoscitivo, in quanto è sostanzialmente mosso da un sentimento; non si tratta infatti di giudizi logici, che nella fattispecie operano mediante concetti e di conseguenza possono contribuire ad una conoscenza teoretica dell'oggetto ai quali il soggetto si relaziona: sulla scorta del dualismo kantiano fenomeno / noumeno non è comunque limpido se, in questo senso, i giudizi logici - o giudizi conoscitivi -contribuiscano a violare quel velo dietro il quale si celerebbe la Cosa in sé, l'essenza noumenica del mondo in quanto mera idea regolativa dell'intelletto umano.

È comunque di fondamentale importanza apprendere come l'esperienza estetica, che costituisce il vero legame tra soggetto giudicante ed oggetto estetico, non abbia alcun valore conoscitivo, per noi oggi come per il vecchio Kant: sia nell'ambito della bellezza naturale sia in quello più specificamente e tradizionalmente artistico, - distinzione analizzata in senso lato solo nell'ultima parte della Critica della capacità di giudizio - deve essere evidente che la contemplazione di un oggetto estetico (sulla scorta del sentimento di piacere o dispiacere che esso suscita nel soggetto) non induce ad un acuirsi della sua conoscenza; appigliarsi con tutte le forze a questo chimerico fondamento significa solo ed esclusivamente nutrire il serio timore che una sezione delle proprie facoltà conoscitive in generale - nella suddivisione che Kant opera tra intelletto, capacità di giudizio e ragione - fallisca il proprio intento conoscitivo originario, si configuri, cioè, come una mera facoltà fine a sé stessa e si perda nella sterilità concettuale del proprio esercizio.

Giunti a questo punto dell'analitica kantiana, possiamo essere indicativamente d'accordo se, immersi nella contemplazione di un oggetto estetico, quale che sia, ci rendiamo conto che non conosciamo nulla dell'essenza ontologica - peraltro costitutivamente insondabile - di ciò che ci sta innanzi; inoltre deve essere chiaro che non conosciamo nulla di più nemmeno della realtà fisica non intuitiva dell'oggetto - per intenderci, quella che risponde ad esigenze di studio specifico o di un'osservazione più accurata della mera visione comune - poiché, in tale direzione i nostri sensi dovrebbe essere coadiuvati da concetti, che potrebbero, in questo modo avviare la serie dei giudizi logici e contribuire, così, ad una conoscenza logico - concettuale più scientificamente profonda dell'oggetto, che non sarebbe dunque più oggetto estetico, ma obiettivo di studio scientifico.

Quindi, se le osservazioni che si ritrovano nella Critica della capacità di giudizio si compendiassero sommariamente nella tesi della non scientificità del giudizio estetico, si avrebbe ben poco da aggiungere o da criticare se l'assetto di fondo da cui prende forma la propria opinione collimasse con quello che si può definire un principio soggettivo dell'esperienza estetica.

Una delle più gravi difficoltà a tal proposito, però, è riscontrabile laddove Kant sostiene che "bello è ciò che, senza concetto, piace universalmente". Proprio qui, infatti, nella definizione del bello derivata dal secondo momento del giudizio di gusto, si instilla ciò che appare come un dispregio alla universale libertà di giudizio, o in più ampio senso, di espressione in materia di bellezza. Perché ciò che viene definito bello in modo unilaterale deve avanzare la velleitaria pretesa di valere incondizionatamente ed universalmente? Con ciò viene ancora sancita la libertà di giudizio in ambito estetico e non solo? Ma soprattutto, davvero così funzionano le cose?

Secondo il pensatore tedesco, il giudizio di gusto - che si ascrive nel suddetto insieme matematico dei giudizi estetici - è il giudizio del bello, ed è costitutivo, dunque, della facoltà di valutare la bellezza. Il giudizio di gusto, inoltre, in quanto estetico, si distingue dal giudizio sul gradevole, ma anche in questo caso, il metodo di discernimento appare ambiguo; Kant, infatti sostiene che la differenza tra i due tipi di giudizi risieda, sostanzialmente, nella differente pretesa di valore che essi adducono: il giudizio di gusto, giudicando senza concetto del bello, pretende di valere universalmente e richiede il consenso e l'uniformità di ciascuno al proprio responso, come se fosse oggettivo, e quindi come se avesse una validità logica, validità che come abbiamo visto possono vantare solo i giudizi logico - conoscitivi mediante concetti; per quanto riguarda il giudizio sul gradevole, invece, essendo basato su un sentimento di piacere eminentemente privato, esso non può quindi avanzare alcuna pretesa alla validità e al consenso universali, proprio perché in materia di gradevolezza - diversamente dalla bellezza - non avrebbe senso discutere sulla maggiore o minore validità dei singoli giudizi come se essi vivessero una contrapposizione in senso logico, ma piuttosto "riguardo al gradevole vale dunque il principio secondo cui ognuno ha il suo proprio gusto (dei sensi)".

Kant svolge un'ottima e senz'altro condivisibile analisi della questione, ma forse, troppo sicuro del suo metodo trascendentale, esegue una distinzione a priori che, in questo caso risulta inattuabile a prescindere da un'attenta e precisa analitica dell'esperienza interiore che ognuno di noi, singolarmente, vive nella contemplazione di un oggetto estetico, e che quindi, dà vita a quel sentimento di piacere - o dispiacere - che è poi l'univoco fondamento di ogni giudizio estetico, sia esso di gusto - o del bello - o sul gradevole. Risulta chiaro, dunque che, sulla scorta di quello che tenteremo di identificare come l'unico sentimento di piacere interiore come scaturigine di ogni giudizio estetico, decade la distinzione operata da Kant tra bellezza e gradevolezza. Più avanti approfondiremo con maggiore precisione l'inverosimile separazione tra gradevole e bello: per il momento ci basta sostenere che, a livello intuitivo, asserire la bellezza di un oggetto estetico quale che sia può anche implicare il voler attestarne la gradevolezza ai nostri sensi, e viceversa, verificare la gradevolezza di un oggetto può essere sintomatico dell'esistenza di proprietà estetiche che potrebbero renderlo bello in potenza. Inoltre, è importantissimo rilevare che, avendo a che fare con un sentimento di piacere - o dispiacere - quale fondamento dei giudizi estetici (d'ora in poi si eviterà la distinzione kantiana "giudizio di gusto / giudizio sul gradevole" laddove possibile) ed in quanto tale privato ed incomunicabile, decade anche la pretesa al consenso universale: in questo senso, ciò che Kant ha definito come giudizio di gusto - sul bello - ossia un giudizio estetico e quindi soggettivo ma con pretesa di validità universale come se portasse con sé un elemento logico oggettivo, torna ad una sorta di situazione originaria, venendo a perdere quella componente oggettiva che aveva guadagnato grazie alla distinzione di giudizio operata dal filosofo tedesco, e riconfigurandosi nella sua natura meramente soggettiva, abbandonando dunque ogni capriccio di universalizzabilità, in modo autentico e soprattutto sincero ed onesto, contro ogni falsa paura di relativismo o soggettivismo.


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