Guerra e giornalismo

Creato il 06 maggio 2013 da Cicciotopo1972 @tincazzi

E’ possibile continuare a fare i reporter in zone calde del pianeta? Con l’avvento delle nuove tecnologie e la diffusione di internet  e dei socialnetwork ha ancora senso esserci in mezzo alla notizia? A sentire molte campane, parrebbe proprio di no. Ma la giustificazione che danno  direttori e i giornalisti stessi è quella dell’elevato rischio che è andato aumentando in maniera inversamente proporzionale all’importanza del giornalista stesso.

Fino a poco prima dell’avvento della rete l’unico modo per farsi sentire era la presenza appunto di qualcuno che potesse raccontare, fotografare o filmare quello che succedeva e trasmetterlo poi al resto del mondo. Oggi la rete bypassa la funzione stessa del giornalista. Gruppi politici, armati o religiosi attraverso i loro sostenitori e attivisti possono tranquillamente raccontare, prendere immagini e fotografie e caricare tutto online in tempi brevissimi senza l’ausilio di una terza persona. Gli stessi eserciti hanno militari/giornalisti interni, fotografi e cameraman che forniscono materiale alle agenzie.

Sparisce così l’autorevolezza del giornalista (e di conseguenza anche quella del giornale che rappresenta). Ma è proprio così?

Per Domenico Affinito (vicepresidente della sezione italiana di Reporter Senza Frontiere), interpellato da Radio Vaticana sulla sparizione in Siria di Domenico Quirico, “Con le ultime guerre, almeno negli ultimi 20 anni, stiamo assistendo a un meccanismo nuovo. Per i giornalisti è sempre più difficile recarsi sui fronti di guerra, in quanto il rischio di rapimenti e anche di uccisione è elevatissimo. Questo fa sì che le informazioni si abbiano attraverso canali nuovi, come i socialnetwork: informazioni che però difficilmente a quel punto sono verificabili. Quindi, è aumentata ancora di più l’esigenza che i giornalisti vadano in questi posti. Però, il giornalista viene visto come parte del conflitto, soprattutto se occidentale, soprattutto se nel conflitto sono coinvolti Paesi occidentali; viene visto come merce di scambio e come possibilità di ottenere soldi attraverso riscatti”.

Affinito rivolta il concetto: difficoltà di essere sul posto, prevalenza quindi dei socialnetwork come fonte, ma aumenta quindi la necessità di avere un giornalista sul posto.

In Italia i reporter di guerra, tra tv, giornali e radio, sono approssimativamente una trentina. Non parlo di chi viene saltuariamente preso e messo a seguire alcuni eventi, ma di chi si occupa di esteri in maniera continuativa, spesso in una regione specifica, in modo totalizzante e senza soluzione di continuità. Non inserisco in questa trentina coloro che utilizzano esclusivamente o quasi le Forze Armate italiane per viaggi nelle missioni militari all’estero. Troppo limitante, circoscritto e saltuario questo tipo di lavoro per essere paragonato a chi si muove in scenari totalmente differenti.

Poi ci sono i corrispondenti, ovvero coloro che vivendo stabilmente in un posto e conoscendo in modo approfondito la società del paese dove risiedono forniscono servizi e reportage. Ne metto un’altra quarantina tra interni e freelance

Per eccesso arriviamo a un centinaio di persone se calcoliamo anche coloro che lavorano per le agenzie di stampa o ai vari desk di esteri che si muovono più raramente e spesso aggregandosi ai viaggi ministeriali.

Cento su un totale di scritti che è arrivato alla modica cifra di 110 mila iscritti (dati 2010, ma più del 60% di questi in pratica è iscritta per sport) e per comodità calcolando 110 giornalisti attivi sugli esteri, abbiamo la splendida cifra percentuale dello 0,1 per cento sul totale degli iscritti, attivi e non attivi.

Ovviamente è una ristrettissima elite. E ovviamente non c’è spazio o quasi per tanti, ma questa già di per sè naturale selezione viene resa ancora più dura da due fattori: la crisi economica irreversibile dell’editoria e la mancanza di interesse per gli esteri da parte dei media italiani.

Ma tornando alla domanda di partenza, è veramente aumentata la pericolosità di questo mestiere dopo l’11 settembre 2001?

In Italia l’ultimo fotoreporter ucciso è il freelance Fabio Polenghi in Thailandia durante gli scontri di piazza tra esercito e camicie rosse (2010)

In azione in un’altra zona calda  zona del mondo, la Palestina, cade Raffaele Ciriello, fotografo freelance e collaboratore del Corriere della Sera, falciato da una raffica di mitragliatrice partita da un carro armato israeliano nel 2003.

Nel 2001 muore Maria Grazia Cutuli, sempre del Corriere in Afghanistan, assassinata da un gruppo di banditi.

In Kosovo viene ucciso da un cecchino il giornalista italiano di lingua tedesca Gabriel Gruener (1999).

Se ci guardiamo indietro dobbiamo risalire al 1995, anno della morte a Mogadiscio di Marcello Palmisano (Rai), ucciso da banditi somali.

Sempre in Somalia nel 1994 Ilaria Alpi e Miran Hrovatin della Rai(agguato compiuto da miliziani somali).

Anno nero, il 1994: a Mostar (Bosnia) un’intera troupe della Rai, Alessandro Ota, Dario D’Angelo e Marco Luchetta vengono colpiti da una granata proveniente dalla parte ovest della città (croata).

Nel 1993 sempre in Bosnia viene ucciso il freelance Guido Poletti.

Un altro salto nel tempo e arriviamo ad Almerigo Grilz, colpito nel 1987 da un proiettile mentre riprendeva un attacco della Renamo in Mozambico.

I sequestri

Sul fronte sequestri abbiamo un caso nel 2013 (Domenico Quirico in Siria),  uno nel 2011 in Libia (Sarcina, Rosaspina, ancora Quirico e Monici), Daniele Mastrogiacomo nel 2007 in Afghanistan, Giuliana Sgrena nel 2005 in Iraq, Enzo Baldoni sempre in Iraq nel 2004.

In Georgia, tra il 15 e il 16 ottobre 2000 muore in seguito a torture Antonio Russo. Ad ucciderlo, con ogni probabilità, elementi delle forze speciali russe

Andiamo poi al 1980, anno nel quale vengono rapiti due giornalisti italiani in Libano, Italo Toni e Graziella de Palo. Non torneranno mai a a casa.

Arresti e fermi

Uno nel 2012 (Ricucci, Vignali, Colavolpe, Dabbous) in Siria

Nel 2003 Francesco Battistini, Lorenzo Bianchi, Toni Fontana, Ezio Pasero, Luciano Gulli, Leonardo Maisano, Vittorio dell’Uva vengono arrestati ed espulsi dalla polizia irachena nei pressi di Bassora.

Riassumiamo:

Delle morti in ‘azione’, 12 in totale, solo tre avvengono dopo l’attacco alle Torri gemelle a New York. Di queste tre, due sono da attribuire ad eserciti regolari, una a banditi.

Dal 2000 al 1987 si contano invece ben 9 uccisioni.

Per quanto riguarda i sequestri su 13 solo tre finiscono male. Uno dopo il 2001, gli altri tre in data precedente. Un omicidio attribuito a formazione legata ad al Qaeda (Baldoni), uno a esercito regolare (Russo), uno a miliziani (Toni e de Palo).

Dei sequestri finiti (più o meno) con esito positivo solo uno è attribuibile (forse) sempre a gruppo al qaedista (Sgrena).

Cala quindi considerevolmente il numero di giornalisti italiani caduti sui fronti di guerra (dato anche da una consapevolezza maggiore dei rischi e delle pratiche di sicurezza da mettere in atto in zone di guerra)  nel periodo 2001- 2013, ma aumentano, purtroppo, i sequestri.

Nel complesso il bilancio è comunque positivo, anche se saranno sempre meno i giornalisti che verranno mandati sui luoghi per raccontare. Questo non per il deterioramento delle condizioni di sicurezza (che spesso è una scusa) ma principalmente per il disinteresse delle testate editoriali.

Tenendo comunque sempre conto della diversa percezione che si ha oggi della professione giornalistica in generale e della sua utilità.


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