Ossia capire le logiche di conflitto e le logiche di pace in un mondo globalizzato ma che rimane legato alle sue culture millenarie e che conosce questioni aperte di lunga memoria legate ai popoli, ai territori ed alla loro capacità o incapacità di convivenza reciproca.
“Ci furono tempi felici in cui si poteva scegliere liberamente: meglio morti che schiavi, meglio morire in piedi che vivere in ginocchio. E ci furono tempi infami in cui intellettuali rincretiniti hanno dichiarato che la vita è il sommo dei beni. Oggi sono arrivati i tempi terribili in cui ogni giorno si dimostra che la morte dà inizio al suo governo del terrore esattamente quando la vita è diventata il sommo bene; che chi preferisce vivere in ginocchio, muore in ginocchio; che nessuno può essere ucciso più facilmente di uno schiavo. Noi viventi dobbiamo imparare che non si può nemmeno vivere in ginocchio, che non si diventa immortali se si corre dietro alla vita, e che, se non si vuole più morire per nulla, si muore nonostante non si sia fatto nulla”. Così Hannah Arendt, rifugiatasi negli Stati Uniti, scriveva nel 1942 sulle colonne di “Aufbau”, il giornale degli emigranti tedeschi su cui dal 1941 al 1945 faceva sentire la sua voce. Il coraggio nella difesa del valore dell’identità ebraica, ma prima ancora della dignità umana, che ispira questa riflessione, è presente in molti degli articoli di quegli anni, qui raccolti. Questa difesa, finalizzata a dare vita a un’autentica politica ebraica, passa attraverso la denuncia di tutti gli atteggiamenti pericolosi per il popolo ebraico: non solo quelli del nemico dichiarato, l’antisemitismo, ma anche quelli provenienti da presunti amici, che però pretendono di trattare gli ebrei con condiscendenza. La critica della Arendt non risparmia perciò nemmeno gli stessi ebrei, accusati di essersi lasciati intrappolare dalla convinzione di essere “solo vittime”, una convinzione “terribile”, perché capace di escluderli “dalla storia dell’umanità in maniera più definitiva di tutte le persecuzioni”.
brano tratto dall’ introduzione di Marie Luise Knott al libro di Hannah Arendt “Antisemitismo e identità ebraica”
Ecco alcuni passaggi elaborati dalla lettura dell’analisi arendtiana sull’ebraismo e sull’antisemitismo che forse possono aiutarci a districare le complesse questioni che si intrecciano: chi sono gli ebrei? come si può convivere con loro senza più l’orrore della Shoah? come si può costruire la pace in Medio Oriente? come si può convivere con i musulmani? chi sono i cristiani? chi è l’Europa,? e la nuova Russia? e gli USA? come si può combattere il terrorismo politico?
Cominciamo dall’origine:
- L’ebreo è per eccellenza colui che è esule; nè il sionismo nè l’assimilazionismo non possono eliminare questa realtà del popolo ebraico
- Sia il sionismo che l’assimilazionismo hanno la loro ragion d’essere nella misura in cui non eccedono nella radicalità delle loro espressioni, ossia il sionismo deve evitare il nazionalismo radicale e l’assimilazionismo deve evitare la fuga dal rimanere e dal riconoscersi ebrei
- Il conflitto arabo-israeliano potrà essere risolto solo con il reciproco riconoscimento delle due parti che dovrebbero cominciare un dialogo costruttivo di carattere federalista
- L’insediamento degli ebrei in Palestina si è svolto attraverso una serie di errori, ossia:
- Gli ebrei hanno da subito ignorato la presenza araba come se non esistesse
- Gli arabi hanno da subito ignorato la presenza ebrea come se fosse una presenza passeggera o contestabile di per sè
- Gli ebrei hanno da subito avuto l’idea insana di chiudersi in un mondo proprio quanto irreale dove, secondo un disegno distorto e manchevole, l’antisemitismo non li avrebbe mai più potuti raggiungere ed indebolire
- L’Inghilterra non ha voluto da subito mettere in atto nessuna doverosa politica che potesse aiutare il dialogo tra i due popoli
- Gli USA hanno da subito visto l’insediamento ebreo come una cosa positiva che andava protetta ed hanno agito in parte deresponsabilizzando/manipolando la politica interna della popolazione direttamente coinvolta
- La ex Unione sovietica ha svolto lo stesso identico ruolo difensivo mettendo in atto la propria politica di parziale ingerenza e manipolazione
- Il sionismo ha avuto da subito l’idea di creare uno Stato autonomo per soli ebrei non considerando il problema del popolo arabo come se fosse un problema secondario ed irrilevante
- La nascita di una patria ebraica (e non di una nazione ebraica) avrebbe dovuto tenere conto che di per sé realizzava un sogno senza avere la pretesa di eliminare la realtà della diaspora che continua ad essere una necessità storica ed un fattore comunque positivo da conservare
- Lo stesso pianeta che ospita gli ebrei deve continuare nella logica che non debba MAI venire meno questa preziosa e naturale mescolanza di razze, innanzitutto perché non è fuggendo il nemico che il nemico viene sconfitto, e poi perché il popolo che non sa combattere i propri razzismi è un popolo destinato a ricadere nel vortice degli errori che hanno travolto l’Europa negli anni disastrosi della Shoah.
- La sopravvivenza stessa di Israele dipende per assurdo dalla medesima capacità degli ebrei in diaspora di sapere restare in diaspora e dalla capacità di Israele, che si è costruita estraniandosi dal mondo circostante, di sapere invece convivere con i popoli arabi circostanti
- Israele ha purtroppo messo in campo la politica dell’intransigenza e dell’intolleranza andando a compromettere in continuazione le logiche, per quanto migliorabili, del collaborazionismo internazionale
- Israele ha usato verso se stesso la migliore e più sofisticata capacità democratica stupendo il mondo intero, ma ha usato verso il popolo confinante una politica militare di aggressione continua (non di sfruttamento ma attraverso una presunta per quanto ridicola evacuazione volontaria)
- La stessa società ebraica per la sua estrema complessità ha sempre estraniato nel suo interno gli intellettuali che hanno scelto di vivere da laici, così che il laicismo ebreo ha sempre finito per portare più beneficio al mondo ospitante che al mondo ebraico che viene tenuto sotto ferreo controllo dalle logiche di gruppo dominanti (le scuole rabbiniche); nello stesso tempo ha sposato l’idea del sionismo come della perfetta realizzazione dell’ingenuo principio “dare un paese al popolo grazie al paese senza un popolo”
- In un certo senso l’ebreo perfetto dovrebbe sapere essere ebreo senza essere ebreo
- Dopo la rovinosa esperienza di Sabbatai Zevi il popolo ebreo ha provvidenzialmente smesso di essere nell’attesa del Messianismo ed ha imparato a vivere nella storia secondo logiche puramente secolari, tenendo nella sfera personale ogni considerazione puramente religiosa
- Gli ebrei hanno imparato a vedersi con gli occhi degli altri: “ Per chi è vivo l’ebreo è un cadavere, per il nativo è uno straniero, per il colono un vagabondo, per il proprietario un accattone, per il povero uno sfruttatore e un milionario, per il patriota un uomo senza paese, per tutti un odiato rivale” così come asseriva Pinsher nella sua Autoemancipazione.
- Altrettanto rilevante è il pensiero di Herzl nel suo Lo stato ebraico che rischia di ricondurre l’agire politico degli ebrei fuori dalla realtà (così come era accaduto con Sabbatai)
- Altrettanto significativa per la comprensione dell’agire ebraico, oltre che benefica per tutti gli ebrei sparsi per il mondo, è la dottrina del Tikkun (Cabbala luriana) che antepone al giudaismo ortodosso, che considerava solo la Legge, il movimento mistico di Isaac Luria che per primo interpreta la diaspora non più come una punizione ed una condanna ma come una missione assegnata al popolo in diaspora
Oggi non esiste un solo ebreo che in cuor suo non intenda positivamente la nascita di uno stato ebraico; il problema è solo la politica internazionale di Israele. La nascita di Israele ha cambiato il modo comune di pensare degli ebrei; prima pensavano solo alla sopravvivenza, oggi pensano invece all’attacco e all’idea che cadere è meglio che non combattere (l’esperienza dell’Olocausto ha portato all’estremo opposto il loro atteggiamento verso lo straniero o quello che loro ritengono il nemico secondo il principio distorto che chiunque non è ebreo è un antisemita per natura.) Purtroppo il conflitto arabo-israeliano perdura da molto troppo tempo; occorre trovare da ambo le parti una politica realistica e illuminata prima che sia troppo tardi. Esistono come sono esistiti leader arabi ed ebrei illuminati ed assennati che potrebbero aiutare il nascere e la stabilizzazione del dialogo tra i due popoli coinvolti; occorre però avere la volontà di saperli ascoltare
Per meglio comprendere lo spirito della pensatrice, voglio riportare lo scritto in cui Hannah Arendt si racconta in una lettera a Gershom Scholem che l’accusava di non amare il popolo ebreo: “ (…) Hai perfettamente ragione- non sono animata da alcun amore di questo genere e ciò per due ragioni: nella mia vita non ho mai amato nessun popolo o collettività- né il popolo tedesco, né quello francese, né quello americano, né la classe operaia, né nulla di questo genere. Io amo “solo” i miei amici e la sola specie d’amore che conosco e in cui credo è l’amore per le persone. In secondo luogo, questo amore per gli ebrei mi sembrerebbe, essendo io stessa ebrea, qualcosa di piuttosto sospetto. Non posso amare me stessa o qualcosa che so essere una parte essenziale della mia stessa persona. Per spiegare meglio quello che voglio dire, lascia che ti riporti una conversazione avuta in Israele con una eminete personalità politica, che difendeva l’integrazione- secondo me disastrosa- di religione e stato in Israele . Quel che mi disse- anche se non sono certa che le parole siano le stesse- suonava più o meno così: “Lei capirà che- in quanto socialista- non credo ovviamente in Dio; io credo nel popolo ebraico”. Questa dichiarazione mi sembrò stupefacente, ed essendo rimasta senza parole, non trovai una risposta immediata. Ma avrei potuto rispondere: la grandezza di questo popolo consisteva un tempo nel fatto che credeva in Dio, e credeva in Dio in modo tale che la sua fiducia ed il suo amore per Lui erano più grandi del suo timore. Ed ora questo popolo crederebbe solo in se stesso? Che cosa può venirne di buono?- Ebbene, è in questo senso che io non amo gli ebrei, né credo in loro; sono semplicemente una di loro. Questo è un dato di fatto fuori discussione.(…)”
Può sembrare non irrilevante o non prioritaria la questione ebraica intesa come urgenza nell’attuale scenario politico, ma a mio modesto avviso non lo è; vuoi che quando si parla di terra di Israele si va a toccare inevitabilmente temi non solo politici ma di natura universale ed immortale; vuoi che l’evento della memoria dell’Olocausto è una data che non solo ogni anno si ripete, ma che ogni anno riporta all’attenzione planetaria l’ effettiva capacità dei popoli di sapere convivere e di sapere scongiurare quello che un giorno non molto lontano non si è saputo evitare e che un giorno non molto improbabile potrebbe tornare a ripetersi sotto forme ancor più oscure ed intricate; vuoi la minaccia sempre incombente del terrorismo islamico congiunto a doppio anello con la presenza ebrea in terra di Palestina; vuoi gli enormi interessi economici connessi a questo luogo geografico che sarebbe di per sè, se ben gestito, un fattore di stabilità politica piuttosto che di instabilità reale, insomma, mi sembra che sia corretto asserire senz’ombra di dubbio che quando si sta parlando di ebraismo e di antisemitismo si parla di fatti attuali, concreti ed assolutamente prioritari.Archiviato in:fede, filosofia, politica, storia Tagged: antisemitismo e identità ebraica, Autoemancipazione di Pinsher, dottrina del Tikkun, ebraismo e modernità, Gershom Scholem, Lo stato ebraico di Herzl, Sabbatai Zevi