Quella di Guglielmo Ciardi (Venezia 1842 – 1917) appare una vita tranquilla, priva di fragorosi di punti di svolta. Poche placide amicizie e un viaggio con Favretto nella Parigi del 1878 per l’inaugurazione dell’Esposizione Internazionale; Ciardi, nel pieno della sua maturità artistica e già sui bordi della mezza età, e Giacomo Favretto non ancora trentenne.
Nella realtà e nelle coerenti opere di Ciardi, la millenaria repubblica è evaporata dentro un’Italia acerba, nulla più di una vecchia signora smemorata dei propri passati fasti e della propria forza, marginalizzata dalle moderne tendenze nazionaliste italiane imperniate su Firenze e Torino.
La città di San Marco, dimentica di sé, si accontenta del belletto di una nuova illuminazione a gas, assorbe annoiata le turbolenze di una montante rivoluzione industriale e politica.
Le opere di Ciardi registrano l’amnesia, trascurano la città e fissano sulla tela paesaggi spesso inabitati e muti. Della grande tradizione vedutista fu uno degli ultimi e si inscrive nel sentiero che fu di Canaletto, solo per affermarne l’inattualità, per confermare la distanza tra una Venezia ancora imperiale e la sua Venezia, sempre bellissima ma priva di ambizioni, assimilata a una qualsiasi città di provincia del Regno d’Italia. Ciardi volge altrove lo sguardo, si rifugia nella poesia dell’assenza e nei silenzi della natura. Ama contemplare solitario i tramonti luminosi in laguna. Un “puro” osservare privo di manierismi e di rimembranze passate. Viaggia molto, dipinge al mare, ai monti e in campagna. Sempre con il medesimo approccio.
Dotato di tecnica e felicità di tratto, lavora sovente, all’ombra di un grande ombrellone bianco, trasponendo fedelmente nella tela le luci che danzano su terra e acqua, dando forma, con toni equilibrati e fini cromie, ad una serenità dell’intimo. Le sue marine visualizzano suoni di onde, gocciolii d’acqua e stridii di gabbiani, ricordano attuali musiche d’ambiente, colorano l’aria immobile di assonate estati.
Libero da tormentate filosofie, moti rivendicativi e difficoltà economiche, nel 1894, ottenne la cattedra all’Accademia delle Belle Arti e tra i suoi allievi formò e introdusse all’arte anche Beppe ed Emma, 2 dei suoi 4 figli. Negli ultimi suoi anni, stanco e malato si stabilì al Lido di Venezia. La morte lo colse nel 1917.