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Guida alla famiglia perfetta, un film di Ricardo Trogi: la recensione

Creato il 28 agosto 2021 da Gliscrittori
Guida alla famiglia perfetta, un film di Ricardo Trogi: la recensione

Cinema Recensione di Elena Genero Santoro. Guida alla famiglia perfetta un film di Ricardo Trogi distribuito da Netflix. In una società ossessionata dal successo e dall'immagine sui social, una coppia del Québec cerca di capire come crescere i figli tra ostacoli, pressioni e aspettative.

Un libro, molte volte, piace quando chi lo legge si ritrova in ciò che viene raccontato.
Lo stesso avviene con le commedie come Guida alla famiglia perfetta, disponibile su Netflix, quando si hanno figli adolescenti: le tematiche toccate sono comuni a molte famiglie.

Questo dramedy canadese si apre con una madre bionda e sorridente che posta sui social le foto della sua "stupenda famiglia", seguite da hashtag entusiastici.

Oltre a lei ci sono un bambino di cinque anni, Matisse, un marito altrettanto biondo e atletico, Martin, e la adolescente Rose. Ma la perfezione iniziale è fragile e la patina liscia si crepa subito come il guscio di un uovo sodo.
Intanto Rose è figlia solo di Martin e della sua prima moglie, quindi la famiglia perfetta è prima di tutto una famiglia ricomposta, con le tensioni e le rivalità che emergono quando ci si trova sotto lo stesso tetto senza essersi scelti. Inoltre Matisse si rivela presto urticante: sbatte per terra ogni piatto che gli viene proposto e anche il più pacifico dei telespettatori avrà la tentazione di mollargli un ceffone.

Guida alla famiglia perfetta
Guida alla famiglia perfetta, un film di Ricardo Trogi: la recensione

Guida alla famiglia perfetta

REGIA Ricardo Trogi
SCENEGGIATURA François Avard, Jean-François Léger
PRODUZIONE/PRODUTTORE Marie-Claude Beaulieu, Louis-Philippe Drolet
DISTRIBUZIONE Netflix
FOTOGRAFIA Geneviève Perron
MUSICA Frédéric Bégin
ANNO 2021
CAST
Louis Morissette,Émilie Bierre,Catherine Chabot


La storia in realtà ruota tutta intorno alle figure di Martin e Rose e al loro rapporto padre-figlia: gli altri personaggi sono di contorno.

Martin è un padre che si dà un sacco da fare: lavora a tempo pieno, punta alla carriera e alleva Rose praticamente da solo perché la prima moglie vive in Europa dove insegue i suoi sogni.
E Rose sembra una figlia modello: studia, prende ottimi voti, chissà cosa non farà da grande.
Ma è solo un'illusione, perché Rose vende sostanze illecite in cambio dei compiti in classe già risolti dell'anno precedente, truffa e bara per raggiungere l'eccellenza che suo padre auspicherebbe ma alla quale non sente di poter arrivare.
Quando Martin lo scopre, inizia la crisi.
La figura di Martin mi ha fatto tenerezza. Martin non è cattivo, non è autoritario. Incarna il prototipo del padre moderno che vorrebbe dare il meglio ai propri figli e che sogna per loro la migliore delle vite possibili, piena di successo, di soddisfazioni, in cui sia inclusa anche una buona carriera e una professione adeguatamente retribuita. Per Rose ha già scelto le scuole successive, i corsi di inglese, le attività sportive, convinto di aver trovato la ricetta per regalarle la felicità.
Ma Rose, che pure non si oppone, non è convinta di volere lo stesso futuro. In realtà non è convinta di nulla: è abulica, né carne né pesce, con passioni inespresse e la paura opprimente di deludere che diventa il motore di ogni sua scelta.
E Martin questo non lo sa proprio gestire. Annaspa, corre. Sbaglia. Va dallo psicologo, sempre nell'illusoria ricerca di una soluzione standard che gli risolva il problema.
Fa comunque più bella figura della sua ex moglie, per lo più assente, che quand'anche si occupa di Rose si dimostra inadeguata, forse meno esigente di Martin, ma incapace di proteggerla. Instaura con lei un rapporto amicale ma tutto sommato distaccato.

Dicevo, Martin mi fa tenerezza, perché gli tocca fare il padre in un periodo storico in cui il primo dovere è apparire, dai social in poi.

Figlio di un'educazione in cui gli scapaccioni non si possono più dare (per fortuna) e le punizioni non sono più di moda, non gli rimangono molti mezzi per incentivare la figlia. All'inizio la paga quando prende dei bei voti. I soldi come incentivo, in mancanza di una genuina motivazione allo studio. Poi, scoperte le truffe, le affianca un tutor, quando Rose rischia di perdere l'anno.
Insomma, Martin cerca di tamponare tutte le falle. Perché se la figlia patisce lo stress e ha l'ansia da prestazione, nemmeno Martin se la passa bene. Anche lui è pressato. Al lavoro è il capo del figlio del suo capo. Il figlio del suo capo è un inetto, un buono a nulla, viziato, inaffidabile e scansafatiche, ma il capo (cioè il padre) trova per lui sempre un mare di scuse.

Una situazione contorta, complicata, imbarazzante, in cui emerge come siamo diventati noi genitori oggi.

Da un canto vorremmo il meglio per i nostri pargoletti, dipingiamo per loro percorsi luminosi per i quali magari non sarebbero neppure portati; dall'altra li proteggiamo fino alla nausea, contro ogni senso logico e troviamo sempre delle ottime ragioni per cui i nostri ragazzi hanno fallito. E loro falliscono. E più colmiamo i loro vuoti, più cerchiamo di non farli soffrire, più ne facciamo dei rammolliti. Non ci mettiamo nella testa che sono diversi da noi. Che non dobbiamo arginare le loro mancanze, che non dobbiamo completare ciò che loro non arrivano a fare.
Una volta era più semplice. Riesci a scuola? Bene. Non ce la fai? Vai a lavorare. Non riesci a fare neanche quello? Pazienza. Sono problemi tuoi. Selezione naturale.
Mio nonno pretese che mia madre, alle superiori, non venisse mai rimandata, altrimenti non l'avrebbe fatta diplomare. E mia madre si impegnò a studiare come una pazza. Si diplomò con ottimi voti. Era una ragazza seria, ma era anche brava, brillante.
Una volta era più semplice. Selezione naturale, dicevo. Ma più giusto?
E se mia madre, pur impegnandosi, non fosse stata brava? Se avesse avuto problemi di comprensione? E se si fosse fatta divorare dall'ansia? Sarebbe stato un bene lasciare che fallisse?
L'equilibrio è instabile e insidioso.

Quanto un genitore può pretendere dai propri figli?

Quanto deve spendersi per pungolarli, sapendo che potrebbero dare di più? Quante volte può mordersi le mani vedendo che i figli non sfruttano le opportunità che hanno? Quante volte deve sopperire alle loro mancanze, se li vede in difficoltà? E quando invece si deve arrendere alla loro mediocrità?
Ora ci siamo convinti che i nostri figli debbano prendere tutti una laurea. O comunque avere successo. Diventare calciatori. Vincere una medaglia alle olimpiadi. E loro credono che quello sia l'unico percorso possibile. Poi ogni tanto qualcuno si suicida. Qualche studente che aveva solo finto di dare esami e non aveva il coraggio di confessare ai genitori che quegli esami non li aveva mai sostenuti. L'ultimo è stato nei giorni scorsi a Napoli, all'Università Federico II. È un caso limite, ma ogni tanto accade. Anche Simone Biles, sopraffatta dalle aspettative, è entrata in crisi alla vigilia di Tokyo 2020. Chiunque crollerebbe a fronte di giornalisti che scrivono "vincerà tutto" prima ancora che la competizione venga aperta.
Alla fine del film si delinea un nuovo equilibrio, più sereno, ma non c'è una soluzione piena. Non sappiamo cosa Rose deciderà di fare in seguito. Alcune domande rimangono aperte, forse perché la soluzione preconfezionata, in effetti, non c'è.

Elena Genero Santoro

Elena Genero Santoro



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