La verità è che non so neppure da dove cominciare, per parlare di questo film. Esso appartiene a un genere ben preciso: quello che mai si vede su Book and Negative. E ciò per svariate ragioni.
Dicono trattasi di una commedia. Ah sì? Non lo metto in dubbio. Dicono sia divertente, anche se, cercando in rete, ho trovato reazioni tutt’altro che lusinghiere. Dicono che ci sia Zooey Deschanel.
E ok, su quest’ultimo punto ho mentito. Sono benissimo che lei c’era. Ma per quanto mi riguarda, venerare una cantante/attrice non implica venerare i suoi film o le sue canzoni. A volte, anzi, capita tutto il contrario.
Com’è ovvio, ormai dovreste saperlo, non ho letto il libro omonimo di Douglas Adams (1979) da cui Guida galattica per Autostoppisti (The Hitchhiker’s Guide to the Galaxy) è tratto, per la regia di Garth Jennings. Però ce l’ho. È lì, su uno scaffale, a prendere polvere da non so quanti anni; più o meno da quando una ragazza gentile e carina me lo regalò.
Lo so: deplorevole da parte mia leggere così poco. Eh, ma io sono l’eccezione. E il fatto che sia persino laureato, in una cosa che mi lascia indifferente, la letteratura, fa di me un fattore unico. Criticabile quanto volete, ma reale. Ovvero, non ci potete fare proprio niente.
Me ne sto qui a parlare del film, quindi, senza alcun timore reverenziale verso un’opera che non conosco e che, verosimilmente, non conoscerò mai.
Come diceva un tale: certe cose esistono per restare sconosciute.
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Fantascienza umoristica? Uhm… non è nelle mie corde. Ma non sono uno di quelli che spara a zero su qualcosa soltanto perché non rispecchia a priori il suo gusto. Allo stesso tempo, sono di gusti difficili.
E per la verità ho mentito: ricordo, solo ora che ne sto scrivendo (giuro), di aver letto le prime pagine del libro. Un libriccino, neanche tanto grande. C’è un tipo, Arthur Dent, a cui stanno per demolire la casa.
E mi sono fermato lì, perché era un periodaccio e rischiavo di perdere la casa anche io, ma per altre ragioni. Un libro non dovrebbe mai iniziare così, ferendo l’orgoglio del lettore.
Casualità e coincidenze a parte, ieri mi metto a guardarlo sul serio, il film, dopo una discussione su fb, con un paio di amici che potete trovare qui e qui, e ovviamente nel mio blogroll (ah, sì, sono su facebook, nel caso non lo sapeste ancora).
C’è Zooey, in questo film. E più di qualcuno (compresi quei due qui sopra), quando la vede, pensa ad altro.
Io no. Quando la vedo in un film la detesto. Perché le affidano sempre lo stesso ruolo. Quello della ragazza caruccia, un po’ bambolina, strana, o meglio “matta come un cavallo” (proprio come dice Arthur). Sorriso dolce e irresistibile, viso che a guardarlo più del dovuto ti fa sciogliere e battutine intelligenti e furbette. Senza mai sfociare in qualcosa di più della commedia romantica.
E infatti Dent la conosce subito, Trillian (fusione fantascientifica di Trisha McMillan), e lei parte con un invito in Madagascar. E pensateci, incontrate una ragazza carina a una festa e lei, dopo un paio d’ore vi invita a viaggiare in Madagascar e a mollare tutto: nessuna garanzia, ma romanticismo a pacchi.
Il bello è che, detto da lei, sia pure per finzione scenica, l’invito suona credibile. Ma è tutto lì. Finisce come cominicia, secondo un copione già scritto.
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La Terra viene distrutta proprio come la casa di Dent, per far posto a una tangenziale. E ci si ritrova su un’astronave sferica, insieme a Ford Prefect (Mos Def), amico alieno di Dent che si presenta alle automobili, Zaphod Beeblebrox (Sam Rockwell), il Presidente della Galassia che oltre a fregare prototipi di atronavi se ne va in giro a rimorchiare ragazze terrestri, Trillian (Zooey Deschanel) che nel frattempo è diventata una specie di Spock, senza orecchie a punta, e Marvin (niente di meno che Warwick Davis, il leggendario Willow) che è uno spettacolare robot afflitto da depressione.
E allora, contrariamente alle aspettative, succede che resto a guardare. Non tanto per lei, badate, ché ormai conosco a memoria, quasi l’avessi vista di persona e ci avessi trascorso del tempo insieme. L’avete mai notato, tanto per dirne una, che quando parla solleva il labbro superiore verso destra?
Guardo questo film, invece, per Marvin, che è superiore: un robot dotato di personalità umana e quindi affetto da sindrome depressiva, che interviene sempre dandosi addosso e, per una volta, doppiato come si conviene. Per lo spremilimoni, un cappello che aumenta temporaneamente l’intelligenza di quel coglione del Presidente. Per il pianeta che ti schiaffeggia se inizi a pensare o avere idee. Per l’astronave e i viaggi della probabilità; per gli squarci della galassia, degni di Guerre Stellari. E sì, d’accordo, anche per lei, altrimenti non sarei Hell, lo sapete.
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E perché, in definitiva, nonostante la pretesa o la finzione di riflettere sulla vita e sull’esistenza, questione affrontata in modo sobrio, proprio dalla risposta al quesito fondamentale: quel numero 42 che non significa un cazzo, oppure significa ogni cosa (e che, al contrario, comunica indecifrabilità e ineluttabilità di fronte a un interrogativo, quello del perché esistiamo, che non è necessario porre), in definitiva, dicevo, la trama è sempre quella, classica, amatissima e universale, alla base della vita stessa, in effetti: il ragazzo incontra la ragazza.
E su tali, ristretti confini si possono costruire poemi epici, romanzi d’avventura, e persino commedie spaziali a sfondo umoristico. E, quel che è incredibile, farle risultare persino più gradevoli di quanto ci si aspetterebbe vedendole.
Magari per voi questo film nasconde chissà quale profonda critica sociale. E non nego che possa essere così. Solo che, alla base della mia visione c’è tutto il delirio che avete letto finora. E poco altro.
Cosa c’è dietro i topi, volete sapere? O cosa ne penso del fatto che la Terra, in questo libro/film, sia solo il prodotto di una ditta che fabbrica pianeti? L’idea mi diverte, ma finisce lì, perdendosi dietro i motivi fondamentali che rendono grande una storia. Una storia qualunque. Il film continuo a trovarlo noiosetto, ma gli archetipi… E badate bene, non stereotipi, ma archetipi: motivi classici, universali, fondanti la narrazione, fin dai tempi in cui comunicavamo, in quanto specie senziente, tracciando segni su pareti rupestri.
Quelli valgono sempre e non annoiano mai. Tutto sta nel modo in cui li si presenta, nell’affabulatore di turno, che ci intrattiene, seduti intorno al fuoco.
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