Di “Astral Weeks” mi innamorai al primo ascolto, e grazie al cazzo. Lo ascoltai ossessivamente per tre mesi dopo un discreto ko sentimentale. Credevo di stare malissimo eppure accendevo lo stereo e c’era pace nel mio cuore, profumo nel mattino. Avevo 17 anni e il disco me l’ero preso in un negozietto londinese poche settimane prima. Dopo un anno lessi “Guida ragionevole al frastuono più atroce” di Lester Bangs, una raccolta di articoli sulla musica che si dovrebbe leggere però come il miglior libro di sempre, a prescindere dal genere di nicchia. Nel primo capitolo si parla di questa canzone, di questo disco, e di come e perchè amarlo follemente, dove la parola follia collima perfino con una apologia sfrontata della pedofilia in nome d’un amore universale su cui qualsiasi scrittore sarebbe inciampato o anzi non si sarebbe mai arrischiato e dove invece la poetica di Bangs trionfa oltre ogni morale, come capita agli dei. E Dio della critica musicale era e resterà sempre. Da quel momento “Astral Weeks” è diventato il disco della mia vita se ce n’è uno, e credo che nessuno abbia capito meglio di Lester Bangs il messaggio universale che esprime in modo così limpido ed eppure non completamente decifrabile. Ah, dimenticavo, si, è sempre Lester Bangs che mi ha insegnato che scrivere di musica può esser ancora più bello che suonarla, e dopo aver sentito infelicemente una cover band dei Pink Floyd poche ore fa guardo questo taccuino come potesse risuonare ogni nota di ogni strumento e soprattutto come se fosse tutto quello di cui ho bisogno. E lo è davvero. C’è sempre la prossima vita invece per imparare a suonare “Wish you were here” come ogni bravo ragazzo. Grazie a Dio anche per stasera non me ne frega un cazzo.
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