Guido Berlucchi un amore di bollicine

Da Virgi_ragout @xsapple

Reduci dalla fashion week o da serate più o meno impegnative, partendo dall’ormai lontano Capodanno e altre ricorrenze, tutti abbiamo celebrato con quelle che sono il simbolo della festa, le bollicine.
Un gesto semplice, quello di stappare una bottiglia, che in se’ porta sempre un significato di convivialità e un augurio di nuovo inizio. Un gesto ripetuto mille volte nel corso di una vita, senza però forse soffermarsi troppo su quello che sta dietro.


Io me ne sono resa conto qualche settimana fa, visitando un’azienda, anzi l’azienda per eccellenza della Franciacorta, la Guido Berlucchi. Mai avrei pensato di trovare un tesoro così grande. Ho scoperto che forse il significato e la bellezza di aprire un fiasco non sta tanto nel momento di più o meno sottile euforia che questo porta, ma piuttosto la ricchezza di conoscere davvero quello che sta dietro, anzi dentro.
Questo il regalo che mi è stato fatto da chi mi accompagnato durante la visita alla Guido Berlucchi.
Ogni singola bottiglia significa storia. Storia del duro lavoro in vigna, storia di generazioni, di cura dei vini come fossero figli, insomma una storia d’amore intensa che si trasforma in qualcosa di eccezionalmente buono, come in ogni famiglia.

Ho conosciuto una terra nuova, la Franciacorta. Un’area sulle rive del lago d’Iseo dove già ai tempi dei Longobardi si produceva vino. I vitigni hanno sempre prodotto in questa zona un buon Pinot senza però essere mai così eccellente.

Tutto cambia con un incontro che cambierà la storia di questa terra. Quello avvenuto nel 1955 tra Guido Berlucchi, elegante gentiluomo di campagna, discendente della famiglia nobile Lana de’Terzi e l’allora ventenne enologo Franco Ziliani. Entrambi credevano fortemente nel proprio territorio ed entrambi erano innamorati dello Champagne. Così nacque una sfida che in quegli anni poteva sembrare piuttosto un esercizio di presunzione, ma che ben presto si rivelò un successo. Creare il primo metodo champenoise in Italia.

Non mancarono gli inconvenienti, per anni si continuò insistentemente, ripetutamente a provare a riprovare il giusto equilibrio nelle bottiglie. Non si contano i fondi che esplosero nei vari tentativi. Finchè finalmente nel 1961 nacque il primo Pinot di Franciacorta metodo champenoise.

Da quella data ad oggi di bottiglie ne son state prodotte. E stappate. Ci si rende conto dell’enormità di ricerca in quest’azienda scendendo nelle cantine che sembrano non finire mai, un susseguirsi di stanze dai soffitti a botte altissimi e migliaia di bottiglie dritte, orizzontali, oblique. Ognuna messa nel posto giusto al momento giusto. Tutto è inquadrato e curato alla perfezione, anche se ci sono due dita di polvere sulle bottiglie, come è giusto che sia. Sembra quasi siano il tempo e la polvere a scandire i tempi di produzione.

Visitare queste segrete è un’esperienza quasi mistica, ci si addentra sempre più profondamente in un mondo perpetuo. Si percorrono al buio i corridoi con pareti di bottiglie che recano lavagnette con su scritta un nome, un numero,  come in una via crucis. A tappe. Fino ad arrivare al cenacolo. Una piccola cella dove è conservata al suo interno una delle mitiche bottiglie del ’61. Eccola lì. L’icona a cui essere devoti per quello che è diventata oggi la Franciacorta.

cella con Pinot metodo Champenoise del ’61

Una magia forse ancora più intensa è quella di entrare nella casa di Guido Berlucchi. Tutto è stato lasciato a quando era vissuta ancora da lui. Ogni oggetto, persino la luce che penera dalle finestre sembra raccontare e riportare alla vita dell’epoca. Le feste in villa, il fermento non solo nelle botti, ma creativo e intellettuale che questa rivoluzione “vinicola” ha portato. Il Palazzo Lana de’ Terzi in realtà parla di tante storie, che si sono incrociate nel corso dei secoli e l’emozione si fa sentire nel sedersi attorno al caminetto con in mano un calice di Berlucchi.

La guida d’eccezione che ci ha fatto innamorare ancora di più di questo luogo e la figlia di Franco Ziliani, Cristina, donna dalla grande semplicità e allo stesso tempo carisma, a cui brillano ancora gli occhi tutte le volte che nomina Guido o il nome di un vino a lei caro. Ecco, chi si sa ancora emozionare per i ricordi e per le cose buone e vere della vita, non può che fare un ottimo vino. Penso.

È una casa dove ci si perde nei dettagli, una sedia antica, un pianoforte, la collezione di ombrelli colorati, tutto racconta di questo gentiluomo di campagna.

Lo stesso vale degustando i vini Berlucchi, è curioso perdersi a riconoscere le caratteristiche e dettagli di ognuno: il Max Rosè (nato nel ’62 e primo rosè champenoise d’Italia) che prende il nome di un amico di Guido Berlucchi, Max Imbert, il ’61 Satèn (il mio preferito, dal perlage più cremoso) e il Brut, super dry.  Ciascuno con una propria personalità ben definita, mantenuta negli anni grazie alla cura e affetto profondo che le persone dell’azienda nutrono per questi vini speciali.

Devo ammettere che aver degustato con una compagnia d’eccellenza questi vini, e avendo assaggiato un pezzetto della loro storia, li rende forse ancora più buoni e amabili al palato.
é  quasi come sentirsi parte di qualcosa di più grande. Così ogni volta che stapperò una bottiglia, preferibilmente ’61 Satèn , che mi ha letteralmente stregato, sicuramente penserò al suo vero significato, e a questa bella storia d’amore che anima ogni giorno la Franciacorta.

tasted @ G.Berlucchi & C.

Piazza Duranti 4, Borgonato (Brescia)

www.berlucchi.it


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