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Guy Gavriel Kay: Il sentiero della notte

Creato il 16 aprile 2014 da Martinaframmartino

Guy Gavriel Kay: Il sentiero della notte

Ebbe la visione del lupo e del ragazzo che si passavano vicini nell’oscurità del Bosco prima che sorgesse la luna, che si passavano così vicini e non lo sapevano, non lo avrebbero mai saputo. Oppure sì? si chiese. C’era una parte dell’anima che si tendeva, in qualche modo, verso possibilità mancate per un soffio, futuri che non sarebbero mai stati, a causa di una distanza così piccola in una foresta, di notte? (pagg. 159-160).

Sono poche righe del Sentiero della notte, il romanzo con cui Guy Gavriel Kay ha chiuso la Trilogia di Fionavar. Le sto citando perché mi piacciono, perché mi fanno venire i brividi, ma come ho citato queste frasi potrei citarne molte altre.

Le possibilità mancate di un soffio. Quante volte ci siamo chiesti “e se…”? Tutta la storia alternativa si basa su questo, cosa sarebbe successo se in qualche momento il nostro passato s fosse svolto in modo diverso. Ce lo chiediamo noi, ma nulla vieta che lo scrittore se lo possa chiedere all’interno di un romanzo. Un “e se…” c’è proprio qui: avevo scritto già diverse frasi che mi avrebbero portata a divagare su altri autori, ma stavolta ho deciso di non farlo. Magari un’altra volta, non ora. Ora rimango sul Sentiero della notte, che in realtà si intitola The Darkest Road. La strada più scura, o La strada più oscura.

Guy Gavriel Kay: Il sentiero della notte

Ce ne sono tante di strade oscure in questo libro, ciascuna a modo suo. Quella intrapresa da Finn, anche se la ta’kiena parla della strada più lunga, quella seguita dai nani sotto il dominio di Kaen e Blöd, con un’ossessione portata oltre i limiti della ragione, quella di Tabor, che agisce in favore della luce grazie al dono di una dea e da quello stesso dono è consumato, quella dei lios alfar, che seguono il loro canto e che lo hanno seguito in passato, quando il Distruttore della Tela aveva posto la sua mano sul mondo per rubagli il canto stesso, quella di Kim, il cui dono si rivela un fardello per lei e una maledizione per chi le è vicino, quella di Darien. Quella di Darien, figlio della luce e delle tenebre. C’è mai stato, si chiedono i protagonisti del romanzo, qualcuno più in bilico fra queste due possibilità?

Guy Gavriel Kay: Il sentiero della notteDarien, non dimentichiamolo, ha meno di un anno. È un andain, figlio di un dio e di una donna mortale, e per questo cresce più in fretta del normale, ma la crescita del corpo non comporta necessariamente, non comporta in questo caso specifico, la maturazione dei sentimenti, l’esperienza del vissuto che sola può aiutare a compiere correttamente e consapevolmente le scelte più importanti. Ha ragione Sharra quando si commuove pensando alla sua solitudine. E poi c’è la strada di Guinevere, Arthur e Lancelot. Kay, e i suoi personaggi con lui, si dolgono dei peccati dei buoni, e ogni volta che io leggo quelle parole sento una stretta al cuore.
Ho dovuto trattenere le lacrime ancora una volta, ed è la quarta, so benissimo cosa sta per accadere, cosa sta accadendo, cosa accadrà. Conosco quelle stelle che cadono, senza posa.

«Io volevo avere il bambino. Ci sono motivi che le parole non possono spiegare. Si chiama Darien, ed era qui poco fa, e se n’è andato perché io l’ho fatto andar via. Loro non capiscono perché ho agito così, perché non ho cercato di legarlo a me». Fece un’altra pausa e respirò a fondo.
«Io penso di capire», disse lui. Soltanto quello. Che era tanto.
Lei aprì gli occhi. Lancelot era in ginocchio davanti a lei, Arthur disteso fra loro due, il sole e la sua scia sul mare dietro i due uomini, rossa e dorata e bellissima. Lei non si mosse. Disse: «È entrato in quel bosco. È un luogo di antico potere e di odio, e prima di andarsene ha bruciato un albero con il suo potere, che gli viene dal padre. Vorrei…» Esitò. Era appena arrivato, le stava davanti, e lei esitava nel pronunciare le parole che lo avrebbero mandato lontano.
Il silenzio non durò a lungo. Lancelot disse: «Capisco. Veglierò su di lui, e non lo costringerò, e gli lascerò seguire la sua strada».
Lei deglutì e lottò contro le lacrime. Che cos’era una voce? Una porta, con sprazzi di luce, accenni d’ombra: una porta verso un’anima.
«È una strada buia», lo avvertì lei, e in quelle parole c’era più verità di quanto sospettasse.
Lui sorrise, in modo così inaspettato che le si fermò il cuore per un attimo. Le sorrise, guardandola dal basso, poi si alzò in piedi e continuò a sorridere, dall’alto, con tenerezza e gravità, con una forza sicura il cui unico punto vulnerabile era lei, e disse: «Tutte le strade sono buie, Guinevere. Soltanto alla fine c’è una speranza di luce». (pagine 135-136)

Guy Gavriel Kay: Il sentiero della notte

È un estratto ovviamente, troppo poco per far capire ciò che davvero sta accadendo, ma non posso trascrivere tutto il libro. Se non avete letto il romanzo non sapete come si è arrivati qui, perché l’incontro fra i due è così doloroso, e come mai in questa scena Arthur non è nulla più che una comparsa, anche se la sua presenza pesa come un macigno sugli altri due. Io so che ho dovuto trattenere le lacrime anche stavolta. Non è stata la prima né l’ultima nel libro, e non sempre ci sono riuscita. C’è semplicemente troppo qui dentro, anche se in un estratto è difficile da capire. Ci sono anche quelle frasi spezzate eppure perfette, e rileggendole capisco perché a volte anch’io scrivo così. Non mi sto paragonando a Kay, non ho un briciolo delle sue capacità di scrittura, ma evidentemente a furia di leggerlo qualcosa mi è rimasto dentro. Amo i romanzi di Robert Jordan, lo sapete, e penso che nessuno lo abbia mai accusato di essere troppo sintetico. Amo quelli di George R.R. Martin, e i suoi banchetti e la sua araldica mi stanno bene. Loro scrivono a quel modo, entrano nei dettagli, e per le loro storie è giusto che lo facciano. Kay si concentra di più su ciò che è davvero importante, e le sue storie sono altrettanto reali. Forse di più.

«Io penso di capire», disse lui. Soltanto quello. Che era tanto. Undici parole, suddivise dai punti in tre frasi. La frase centrale non è nemmeno una frase, non c’è il verbo e neppure il soggetto. Eppure è perfetta.
Visto cosa intendo? La perfezione in pochissime parole. Un altro esempio?

Lo vide inginocchiarsi, e prendere la mano di lei con quella che gli era rimasta sana, e portarla alle labbra, la stessa cosa che aveva fatto con lei quando le si era avvicinato sull’erba presso il Fiathal.
Eppure non la stessa. Non la stessa. (pagina 276)

Guy Gavriel Kay: Il sentiero della notteNon la stessa. Quanto struggimento c’è qui dentro? Perché è un cuore infranto quello che stiamo guardando. Così, semplicemente. Un cuore vero, anche se il corpo in cui batte è quello di un personaggio di finzione. Non per nulla in quel momento Leyse della Marca dei Cigno sente il proprio canto.

Lo so, sto spiegando poco, ma davvero le emozioni si possono spiegare? Certe cose vanno provate, perché la mera conoscenza non conta nulla. Io so cosa accade quando i due eserciti si incontrano, al tramonto nell’Andarien. E allora? Ho iniziato a rileggere la scena mentre ero in pausa pranzo dal lavoro. Quando la pausa è finita e io ho dovuto rientrare ne sono stata felice, anche se mi dispiaceva chiudere il libro e soprattutto chiuderlo lì, quando due uomini su un’altura stavano parlando dell’ultima possibilità, perché non volevo che le altre persone presenti nel bar mi vedessero piangere con un libro in mano. I camerieri mi conoscono da oltre dieci anni.
Ho ricominciato la sera, subito dopo aver messo a letto le bambine. Pensavo, avendo interrotto la lettura, che avrei sofferto meno.

Sbagliato. Sono bastate giusto un paio di righe per riportarmi nel mezzo della scena, totalmente, e ho iniziato a piangere. Quando Ilaria si è alzata dal letto per dirmi che Alessia le aveva fregato un peluche ho dovuto soffiarmi il naso per nascondere le lacrime, non volevo che vedesse la mamma piangere. Ma perché non si può leggere in santa pace?

Guy Gavriel Kay: Il sentiero della notteC’è un altro duello che è capace di donarmi le stesse emozioni. Si svolge molto prima, in una radura dentro il bosco più pericoloso del mondo di Fionavar. Non ci sono eserciti in questo caso, solo i due personaggi impegnati nel duello, il ragazzo per la cui vita stanno combattendo e le creature del bosco. Un ambiente molto più ristretto, eppure quello che viene compiuto lì risuona molto forte, nel libro e nella mia anima.

Potrei parlare ancora a lungo, lo so, ma come sempre il tempo a mia disposizione è limitato, anche se vi avviso che non finisce qui né con questo scrittore né con questo libro.

Alcuni libri si leggono per imparare qualcosa, che siano saggi o manuali. Altri si leggono per divertimento. E altri ancora, e sono i più veri, perché l’anima ha bisogno di nutrimento. Con i romanzi di Guy Gavriel Kay è così: leggerli mi rende più ricca.
A volte non sappiamo cosa stiamo cercando, magari non sappiamo neppure che stiamo cercando qualcosa che ci manca, sommersi da una gran quantità di impegni e di pensieri. E poi, inaspettato, arriva il dono che è impossibile da descrivere e che va al di là di ogni aspettativa. Forse, in qualche momento, anche a me sembra di sentire un battito d’ali.



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