Era il communista. Quel nome lo pronunciava proprio così. Forse era la dentiera che si incollava sulla emme o l’ossigeno che non gli bastava a finire la parola. I giovani del circolo lui li chiamava i compagnucci. Lui era il grande compagno. Un po’ come il grande puffo. Aveva novantuno anni.
La seconda guerra mondiale non l’aveva solo vista. Lui l’aveva combattuta. A modo suo. Lui si occupava delle trasmissioni radio. In Sicilia. Non uccise nessuno. Era contro la guerra e contro quei bastardi dei fascisti. Lui guidava un camion enorme. Più grande di un autobus di linea. Dentro c’era la radio. Lui guidava e quando gli dicevano stop lui si fermava. In mezzo al deserto della Sicilia smontava l’antenna che aveva sul camion e la issava. Però da solo lui non ce la faceva. Allora si faceva aiutare dalla gente del posto. In quattro sì che veniva su dritta quell’antenna chilometrica. Quell’antenna era un ponte aereo per le trasmissioni. Lui non uccideva nessuno. Alzava l’antenna e gli aerei sapevano dove far scendere le bombe.
Lui però dentro se lo sentiva che era communista. La povera gente di Sicilia, a lui che veniva da Roma, gli faceva pena. Lo aiutavano ad alzare quell’antenna senza nemmeno sapere cosa fosse. Allora lui ruotava la manopola e montava le casse fuori dal camion. Ragazzini e ragazzine curiose spuntavano da ogni dove. E così gli uomini e le donne, tutti iniziavano a ballare e si dimenticavano che era tempo di guerra. E si dimenticavano che le bombe piantate nella terra non erano buone da mangiare. E si dimenticavano che avevano i figli… dove li avevano i figli?
Poi arrivava il nuovo ordine e rimontava sul camion e trasportava l’antenna dove non c’erano strade. Il suo ruolo era importante. Mica tutti lo potevano fare. Di camion come quelli ce n’era solo un altro in tutta Italia. L’aveva visto a Roma. Alla parata che inaugurava la guerra. Mussolini era un compagno più di tutti i rossi che vennero in seguito. Lui poteva dirlo. C’era stato e continuava a esserci. Solo che Mussolini s’era venduto a Hitler e non ai democristiani. Sempre meglio dei cattocomunisti. Non sapevano nemmeno da che verso si facesse il segno della croce, però sapevano dare il culo per baciare la mano inanellata del papa. Quando il papa divenne tedesco, la differenza scomparve.
Lui in Sicilia guidava un camion radio. Era tempo di guerra e le notizie potevano far vincere o morire. Ma anche quando si vinceva c’era qualcuno a morire. Lui non voleva crepare. Per questo, pure se si sentiva communista dentro, vestì la divisa nera fuori. Tre chilometri di filo sulle spalle e un’antenna issata dove solo dio poteva parlare. Stanco morto poi riposava. Dentro il camion radio lui ci aveva pure i materassi di gommapiuma Pirelli alti così. Quella povera gente di Sicilia nemmeno dentro casa ce li aveva. Quella notte però lo svegliarono in fretta. Il comandante era morto. Abbattuto in quel di Malta.
Il comandante non lo aveva mai conosciuto, però ancora gli venivano le lacrime agli occhi. E gli venivano perché era passato tanto di quel tempo che neanche più i denti erano quelli di allora. Nemmeno il mondo. Nemmeno i compagni. Eppure lui i conti con il passato li aveva fatti. Abbandonò la carriera militare. Fece l’insegnante e arrivò alla pensione senza troppi scossoni. Non aveva accettato i compromessi con l’amore eterno e con quei rabbini dei preti. Aveva sempre votato a sinistra. Poi aveva smesso.
Una volta chiese al conducente del sessantadue di guidare. Gli raccontò del camion radio e della Sicilia, dell’antenna e dei materassi di gommapiuma Pirelli alti così, dei tre chilometri di cavo e del comandante. Il conducente era un compagno fascista. Gli disse di scendere e aspettarlo lì. Neanche i fascisti erano quelli di una volta. Usavano le spranghe, ma almeno erano chiari. Dritti al sodo, senza giri di parole.
Il communista mangiava in disparte come un lebbroso alla festa dei compagni. Tutti gli altri erano morti. I migliori e forse gli unici sotto le bombe. Chi come lui si era salvato era sceso a patti. Quel pasto non lo avrebbe pagato ai compagni. Non di certo a quei prezzi da intellettuali di partito. In quella piazza che gli sembrava il mercato nel tempio e non una piazza. Di certo non lui, un povero cristo che non aveva più discepoli a cui raccontare la sua storia.
Mussolini l’avrebbe almeno tenuta pulita quella piazza. Le bestie ubriache con dieci cani affamati al seguito; gli africani con i loro calzini di spugna e quel modo invadente di chiamarti fratello; gli indiani con gli occhiali con le lucette e le sveglie con le lucette e i dischi volanti con le lucette e le rose con le lucette e quando piove gli ombrelli con le lucette; i ragazzini con le scarpe firmate e le magliette del che, i ragazzi con la kefiah e la barba un po’ lunga, gli uomini con la barba un po’ lunga, la kefiah, la maglietta del che e le polacchine con i lacci sbrindellati; le ragazzine con i rasta, le ragazze vestite da zingare, le donne che rollano sigarette e il manifesto sotto al braccio e i peli sotto le ascelle.
Vomitò. Vomitò in faccia ai compagni. Vomitò quel pasto communista. Vomitò un impasto di salsicce e vino rosso. Vomitò rosso. Lui sì che era communista.
Tratto da “Erano – 26 racconti per gente che fù”:
Ventisei racconti. Minimali; a volte irriverenti, altre delicati. Perché dopo un pugno nello stomaco è piacevole tornare a respirare.
Ventisei ritratti. Inconsueti; a volte deliranti, altre pacati. Perché di pagina in pagina è piacevole continuare a sorprendersi.
Dalla a alla z, ventisei testamenti al tempo passato eppure attuali. Ventisei ricordi di vita di persone e di oggetti, senza censure e inibizioni. Ventisei confessioni che seppelliscono sotto una lacrima dolce e una crassa risata chi si prende troppo sul serio.
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