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Habemus papam

Creato il 14 aprile 2011 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Habemus_Papam_Moretti

Un film complesso Habemus papam, l’ultima fatica di Nanni Moretti. Diversi gli strati di lettura che compongono il tessuto narrativo di una sceneggiatura, scritta a sei mani (insieme a Francesco Piccolo e Federica Pontremoli), in cui il cineasta romano ha inoculato, com’è sua usanza, una massiccia dose d’ironia.

Un’immagine: dopo aver appreso di esser stato nominato papa, in seguito a un conclave strampalato e ciarliero, il cardinale Melville (Michel Piccoli) – il nome è stato scelto per omaggiare il regista francese –  invitato dagli altri prelati ad affacciarsi alla finestra per salutare i fedeli accorsi in piazza S. Pietro, indugia sul suo scranno e, con la testa tra le mani, emette un urlo di dolore, colpito improvvisamente da un attacco di panico: qui non si ride, bensì si prende atto della fragilità di un uomo, della sua ammissione di inadeguatezza. A questo punto entra in gioco Nanni/psichiatra, “il più bravo di tutti” – separato dalla moglie (Margherita Buy), anch’essa del ramo (fissata con la sindrome da “insufficienza di accudimento”) – convocato dal responsabile della Santa Sede (Jerzy Sthur, attore feticcio del primo Kieslowsky) per tentare di risolvere l’inconsueta situazione. Esilarante la sequenza del faccia a faccia Moretti-Piccoli, in cui, alla presenza di una fitta schiera di porporati, è inscenata una seduta terapeutica più che mai bislacca, date le esagerate limitazioni imposte allo psichiatra nell’indagare la sfera privata del neo-pontefice.

Il rappresentante di Dio in terra riesce a fuggire rocambolescamente dal Vaticano, e lo vediamo girovagare per Roma, in abiti civili, completamente umanizzato; si reca dalla moglie del principe della psichiatria, e quando lei gli chiede di cosa si occupa nella vita risponde di essere un attore. Scopriamo che aveva una sorella che recitava Cechov e la sua frustrazione per non essere riuscito a coronare le ambizioni artistiche giovanili.

Intanto Nanni (nel film non ha un nome) s’intrattiene, quasi sequestrato, presso i cardinali, dei quali rivoluziona la vita, programmando delle partite di pallavolo; ciascuno è inserito in una squadra, a seconda dell’area di provenienza, seguendo rigidamente “le griglie” elaborate la notte precedente dal caustico organizzatore. Qui il film ricorda, se non altro per la parentesi sportiva, il carattere surreale del precedente Palombella rossa (1989), dove la competizione assumeva un carattere metaforico, che, nella fattispecie, appare un’operazione di laicizzazione del mondo religioso, di cui muta i rituali, innescando una vitalità sepolta sotto le nenie scandite dallo scricchiolio senza sosta di chilometrici rosari.

Continua la crociata contro la psichiatria, iniziata dai tempi di Sogni d’oro (1981), e si segnala l’insufficienza della comunità cristiana ad accogliere le nuove istanze provenienti dal corpo sociale (La messa è finità, 1985): “Ci vuole tanto amore per tutti” dice il papa mancato, affacciandosi, nell’ultima sequenza, al balcone di piazza S. Pietro, prima di congedarsi definitivamente da un ruolo che lo opprime e di cui non si sente all’altezza.

Poi c’è “il capitolo Cechov” (il riferimento è a Il gabbiano), e qui le interpretazioni possono essere plurime, anche se probabilmente si allude alla tragicità di un’epoca, la nostra, in cui, invece di esser sfiorate dal tocco gelido della morte, le esistenze si prolungano in un flusso asettico, imperturbato.

E la politica? Sembra latitare una tematizzazione della questione, ma in realtà cova sotto traccia: si tratta di ri-pensare la comunità sotto una nuova egida. Le tradizionali categorie risultano del tutto inadeguate ad interpretare una contemporaneità sempre più decentrata, che ha metabolizzato la temporalità del capitalismo, disegnando uno scenario in cui gli aspetti più terrificanti della logica dei consumi vivono il loro apogeo. La sfida per l’avvenire è proprio questa: torcere a vantaggio del “comune” gli strumenti che, normalmente, hanno permesso l’esercizio dell’oppressione. Per far questo, bisogna interpretare, credere e produrre le verità del nuovo millennio.

Nanni Moretti ha realizzato un film ambizioso, difficile e, come al solito, “non furbo”: non afferma alcunché, ma formula una domanda per sé e per gli spettatori. Si può essere più onesti di così?

Luca Biscontini


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