Habemus papam (Italia, 2011) è un film sorprendentemente toccante.
Ti commuove nel primo terzo e ti angoscia nel finale.
Michel Piccoli che si muove smarrito e in incognito tra cittadini romani di ogni sorta, mostrando un'ironica (ironica da parte del regista: c'è sicuramente l'allusione ai trascorsi scenici di Wojtyla, ma c'è anche la critica alla Chiesa come eterna rappresentazione teatrale, come finzione, come masquerade) predilezione per una compagnia di attori teatrali.
Il Moretti coprotagonista per fortuna non compare per tutto il tempo, visto che si è scelto il ruolo di uno psicanalista narcisista e oppresso dai suoi problemi, che per risollevare il morale dei cardinali in un conclave che non si può sciogliere, non trova nulla di meglio che indottrinarli sugli psicofarmaci od organizzare un torneo di pallavolo.
Ci sono anche la Buy, trascurabile, e vari attori di primo e di secondo piano del cinema e della tv.
Quello che mi sembra sia dispiaciuto a santa romana Chiesa - motivo in più per andarlo a vedere e farsi un'opinione in proprio, ovvio - è la rappresentazione delle istituzioni vaticane non crudele, non perversa, non preda di vizi borgiani, perversioni sessuali, lotte per il potere, soldi sporchi ma... come una compagine di poverini, di ingenui, di bambinoni, manovrati dal cerimoniere Jerzy Stuhr (ottimo nel ruolo), ignoranti di quanto accade nel mondo (ma figuriamoci), le cui uniche pecche sono la golosità per il cappuccino, la cyclette serale, la briscola.
E inoltre, altro peccato imperdonabile, l'esercizio di fantasia fantascientifico: lasciare la Chiesa acefala per giorni, l'alabardiere svizzero che fa le ombre cinesi nelle stanze papali per fingerne la presenza e ingannare cardinali, suorine e mass media, mentre il Papa, quello vero, gironzola per la capitale smarrito e mentalmente confuso.
Niente di rivoluzionario, niente di scandaloso, niente di politico, non si parla nemmeno di temi biologici scottanti (sesso, aborto, eutanasia, gay...) come si vede. Siamo ad anni luce dal Vicario. Ma evidentemente, anche solo parlarne smuove reazioni scomposte, invece che alzate di spalle e sana autoironia.
Il finale aperto non mi ha fatta impazzire. Immaginavo una ricomposizione finale delle fratture aperte dalla crisi esistenziale del cardinale Melville, e invece il sipario si chiude senza darci un epilogo degno di questo nome.
Se è vero quanto afferma lo sceneggiatore Fabio Bonifacci - che le fasi storiche caratterizzate da opere dal finale aperto, sono tipicamente periodi di crisi - be', allora possiamo stare tranquilli: siamo in crisi, lo siamo da anni, e neanche la Chiesa cattolica se la passa tanto bene.
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