22 GIUGNO – Juan Muñoz amava definirsi uno storyteller.
Il carattere narrativo delle sue opere prende forma all’inizio degli anni Novanta, quando comincia a realizzare sculture che rappresentano figure antropomorfe, leggermente più piccole rispetto alle dimensioni naturali e di color grigio piombo o color cera. Il primo materiale utilizzato è la cartapesta, negli anni a seguire la resina e il bronzo.
Il lavoro dell’artista spagnolo, nato a Madrid nel 1953 e scomparso quattordici anni fa, ha origine in un personale ed enciclopedico universo di riferimenti, spaziando con estrema facilità dalla letteratura alla poesia, dall’architettura al cinema, dalla filosofia alla musica.
Affascinato dagli elementi illusori, si spinge oltre i confini della realtà, creando nello spettatore un forse senso di inquietudine e turbamento.
È la scrittura a rivestire il ruolo da protagonista nella produzione artistica di Muñoz. Il testo e la parola scritta sviluppano infatti il presupposto per cui ll’opera d’arte ha la capacità di ”parlare”, intrecciando scienza, etnografia e mito, arrivando a raccontare fatti difficilmente esperibili nel mondo reale, ma avvicinabili solo grazie alla perdita degli usuali punti di riferimento.
È proprio la destabilizzazione della percezione il secondo perno su cui di fonda la ricerca artistica dell’artista in mostra allo spazio milanese dell’Hangar Bicocca fini al 23 agosto 2015.
nell’opera “The Wasteland” (la terra desolata), del 1986, propone un pavimento costituito da una serie infinita di pattern geometrici colorati e da una piccola mensola sulla quale è appoggiata la riproduzione in bronzo di un pupazzo.
Negli anni successivi la produzione di arricchisce di nuove figure, che occupano lo spazio creando nei confronti dello spettatore una distanza fisica ed emotiva, dando origine ad un forte senso di smarrimento, isolamento ed estraneità (“Square” 1986, “Conversation place” 1990, “Many times” 1999). Diventiamo degli ospiti invisibili: i pupazzi non si relazionano con noi, facendoci diventare inevitabilmente spettatori esterni di una realtà che esiste ma nella quale non riusciamo ad amalgamarci. Le figure non hanno caratteri distinguibili, non hanno occhi, né lineamenti diversi l’uno dall’altro e forse è proprio questo che li lega. Loro si sanno riconoscere perché uguali, stessa altezza e stessa corporatura, stessi ghigni sarcastici.
Popolano l’ambiente ma rimangono totalmente indifferenti alla presenza degli spettatori.
La ricerca delle relazioni tra spazio architettonico e individuo sono ben visibili nei suoi progetti su larga scala, come nell’istallazione “A place called abroad” del 1996. Tre livelli senza identità, carichi di emozioni ma completamemente anonimi, collegati da due ascensori e illuminati col fine di creare vuoti reali e illusori. Tramite una scala si può salire alla sommità, osservando giochi geometrici e ottici di profondità, mentre il pianterreno ricorda un parcheggio sotterraneo, ma avvicinandosi e guardando in alto di possono notare degli spazi, popolati da pupazzi che ci osservano.
Eleonora Gargantini
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