È il caso del racconto del 1922 “Nel bosco” (Yabu no naka), ispirato al “Konjaku Monogatari”. Indubbiamente la sua opera più famosa, ispirò Akira Kurosawa per la trama di “Rashomon” che, nel 1951, vinse il Leone d'Oro al festival del cinema di Venezia. La trama è arcinota: diverse persone coinvolte in un omicidio (incluso lo spirito della vittima) forniscono la loro personale testimonianza di quanto avvenuto, e nessuna di esse collima con le altre. Da notare che l'autore, pur avendo personalmente un forte senso della morale, si limita a presentarci i diversi punti di vista dei personaggi senza indicare alcuna conclusione né chiave di lettura: la morale è che una verità assoluta non esiste, perché tutto ciò che ci accade o che apprendiamo viene filtrato dalla personalità e dalla coscienza individuali (nonché, vorrei aggiungere, dal proprio stadio di evoluzione spirituale). Con un po' di cinismo, potremmo definire questo racconto un inno all'ipocrisia umana.Altra opera notevole fu “Kappa”, del 1926, della quale un giorno, magari, mi piacerebbe parlare più diffusamente. Ora, invece, vorrei soffermarmi su “Il fazzoletto” (Hankechi) perché secondo me rappresenta molto bene le contraddizioni insite nell'animo giapponese che erano ben presenti, naturalmente, anche nello stesso Akutagawa.
Un giorno Hasegawa riceve la visita di Atsuko Nishiyama, la madre di un suo studente, che gli reca una triste notizia: suo figlio è morto di peritonite dopo una lunga degenza in ospedale, e la donna è venuta a ringraziare il professore per tutto quello che ha fatto per suo figlio. Nonostante l'argomento della conversazione sia così tragico, la donna ne parla con voce tranquilla e misurata, senza nessuna traccia di dolore, addirittura con un accenno di sorriso sulle labbra. “Né dal suo atteggiamento né dal suo comportamento risultava minimamente che ella parlava della morte di suo figlio. Non si vedevano nemmeno le lacrime nei suoi occhi. Anche la sua voce era composta. Ai due angoli della bocca si vedeva persino il sorriso. Se qualcuno l’avesse vista dall’esterno, senza sentire quello che veramente raccontava, avrebbe capito che ella parlava di cose banali di tutti i giorni”. Il professore però si accorge che lei stringe un fazzoletto tra mani che tremano visibilmente, quasi a volerlo fare a pezzi. “Le mani da lui viste tremavano violentemente. Al professore sembrò che ella cercasse di controllare la sua forte emozione interna, tormentando il fazzoletto con le due mani come se volesse strapparlo. E il fazzoletto di seta stropicciato si scuoteva nei suoi angoli ricamati come se fosse mosso dalla brezza tra le sue dita sottili. Sebbene la signora mantenesse il suo sorriso, in verità era già da un po’ che ella piangeva dentro di sé.”
Questo riempie Hasegawa di orgoglio per quello che considera un esempio di spirito cavalleresco al femminile. Più tardi, però, riflettendo meglio, dei dubbi lo assalgono. In materia di espressione dei sentimenti, sia l'atteggiamento degli occidentali sia quello dei giapponesi gli sono sempre sembrati in qualche modo strani. Ora, riprendendo in mano gli scritti di Strindberg sul teatro che stava leggendo prima della visita della signora Nishiyama, gli viene in mente che il grande drammaturgo svedese deprecava la tendenza a replicare in maniera drammatica e banale il palesarsi del sentimento, definendolo “Mätzchen”, manierismo. Questo pensiero disturba Hasegawa senza che egli capisca esattamente il perché.Che cos'è che tormenta davvero Hasegawa? È il pensiero che agli occhi di un occidentale - e di un occidentale colto, per di più - il comportamento della donna (e, per esteso, quello dei giapponesi tutti con la loro proverbiale riservatezza) possa essere mal interpretato e disprezzato, invece che riconosciuto come una manifestazione dello spirito del guerriero? Oppure il dubbio che la sua ospite stesse realmente fingendo, che stesse in qualche modo recitando la parte della madre inconsolabile ma dignitosa?
Akutagawa, come il protagonista de “Il fazzoletto”, era un profondo conoscitore non solo della letteratura giapponese, ma anche di quella cinese ed europea, soprattutto inglese, ed è probabile che con questo racconto volesse sottolineare come agli occhi degli occidentali la vera natura del Giappone e delle sue tradizioni, e soprattutto del Bushido, resti fondamentalmente inafferrabile. Allo stesso tempo, sempre come Hasegawa, era affascinato dall'Occidente. Alla figura di Cristo, cui si appassionò nell'ultima parte della sua vita, dedicò due racconti, “L'uomo dell'Occidente” (Seiho no hito) e “Il seguito de l'uomo dell'Occidente” (Zoku seiho no hito). Addirittura i suoi biografi asseriscono che identificasse la sua vita con quella di Cristo, e che avesse letto dei passi della Bibbia poco prima di suicidarsi, anche se forse il suo interesse per essa fu più folcloristico/letterario che religioso.I suoi biografi asseriscono anche che il dilemma del professor Kinzo Hasegawa sul manierismo fosse anche il personale dilemma di Akutagawa in merito alla sua scrittura, ovvero che egli abbia convissuto per gran parte della propria vita con il terrore che prima o poi la propria vena poetica si inaridisse e il suo stile potesse essere tacciato di manierismo. Il suo timore era fondato nella misura in cui qualsiasi autore, foss'anche il più originale del mondo, può sempre essere fatto rientrare in un determinato movimento o corrente letteraria. “Il fazzoletto” potrebbe essere dunque un testo persino più autobiografico di quanto comunemente non si pensi.