La regista Margarethe Von Trotta sceglie di dare voce ad uno dei personaggi più importanti del Novecento, Hannah Arendt, fotografando le vicende tra il 1960 e il 1964, cruciali sia per la pensatrice sia per la comunità mondiale post bellica e quella contemporanea. Nel 1960 agenti israeliani catturano a Buenos Aires, dove si era rifugiato, Otto Adolf Eichmann, tenente-colonello nazista che coordinava gli spostamenti degli ebrei verso i campi di sterminio su scala europea. Il film si apre proprio con la decisione della Arendt di assistere da inviata del New Yorker alle 120 sedute del processo che si tiene a Gerusalemme a partire dal 1961. Quello che nota sin dall’inizio è la disparità fra i crimini mostruosi compiuti da Eichmann e la sua mediocrità. Eichmann le appare come un uomo comune, un burocrate che ha eseguito ciecamente gli ordini impartitigli, qualcuno che si era occupato, come egli stesso sosteneva, di trasporti. “Non era stupido, era semplicemente senza idee[...]. Quella lontananza dalla realtà e quella mancanza di idee, possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo. Questa fu la lezione di Gerusalemme”. Di uomini come lui, né mostruosi né sadici, ma assolutamente normali erano in molti, ottemperanti a leggi e ordini, e questo ha permesso loro di commettere crimini senza accorgersi di scegliere il male. Proprio questa loro incapacità e nolontà di pensare, di distinguere tra giusto e sbagliato, li ha resi capaci di azioni indescrivibili. Altro elemento di cui la Arendt si sorprende, nell’ascoltare le testimonianze dei sopravvissuti, è la condiscendenza dei leader delle comunità ebraiche in Europa di fronte ai nazisti. Tornata a New York, proprio a partire da queste osservazioni, elabora le riflessioni che compariranno in vari articoli del New Yorker e che diventeranno il nucleo del libro “La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme” (1963). “La mia opinione è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né la profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie come un fungo. Esso sfida come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, andare a radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua ‘banalità’… solo il bene ha profondità e può essere integrale“. Questa normalità fa sì che alcuni comportamenti abitualmente ripudiati dalla società, come i programmi della Germania nazista, si manifestino nel cittadino comune, che non riflette sul contenuto delle regole ma le applica incondizionatamente. L’opinione rivoluzionaria della Arendt viene osteggiata dalla maggior parte, che lungi dal leggerla con attenzione, la accusano di giustificare i comportamenti nazisti e di non dare il giusto peso ai crimini da essi compiuti. Uno dei suoi più cari amici, l’ebreo Kurt Blumefeld non le perdona quegli scritti, mentre lo scandalo si diffonde in Israele e negli USA, anche il Mossad interviene per minacciarla. La stampa la attacca violentemente, l’università per cui lavora vuole licenziarla. Solo il marito il poeta e filosofo tedesco Heinrich Blücher, la scrittrice Mary McCarthy, la sua allieva tedesca Lotte Köhler e molti studenti approvano e sostengono il suo pensiero rivoluzionario. In una lezione tenuta dalla Arendt nel bel mezzo del cataclisma mediatico, emerge la profondità del crimine commesso dai nazisti non semplicemente contro gli ebrei ma contro l’umanità, non solo perché gli ebrei appartengono al genere umano, ma anche perché l’incapacità dei nazisti di pensare, che è peculiare dell’essere umano, gli ha privati dell’umanità verso se stessi e verso i loro simili. A proposito di questo la regista utilizza i flashback per accennare all’amore tra la Arendt e Heidegger, il filosofo tedesco di cui è stata allieva e per la cui riabilitazione pubblica ha esercitato un ruolo fondamentale. Il filosofo aveva aderito seppur temporaneamente al nazismo, applicando con zelo le leggi antisemite all’interno dell’università. Emerge nei suoi confronti ma anche nei confronti degli amici più cari che la abbandonano dopo il 1963, il ritratto di una Arendt fortemente addolorata. La filosofa brillante e coraggiosa, inseparabile dalla sua sigaretta, lascia spazio alla donna forte che è stata, che ha vissuto la segregazione razziale e la superficialità di essere accusata come filonazista. L’intero film è una ricostruzione seria ed onesta del pensiero e della biografia di questa donna scomoda, una scelta coraggiosa da parte della regista ed encomiabile se pensiamo che “La banalità del male” è stata pubblicata in Israele solo dopo il 2002. Serietà ed onestà intellettuali che caratterizzano anche l’attrice, persino nell’uso di un inglese con un forte accento tedesco, e nel dare pieno corpo alla Arendt nei momenti pubblici e in quelli privati. Importante è segnalare anche l’uso di immagini di archivio storico relative al processo di Eichmann e la ricostruzione attenta degli interni e di tutti i personaggi reali presenti nel film. “L’incapacità di pensare non è stupidità: può essere presente nella gente più intelligente e la malvagità non è la sua causa, ma è necessaria per causare grande male. Dunque l’uso del pensiero previene il male”. Una lezione interessante, particolarmente scottante per la questione Palestina-Israele, ed essenziale per tutti noi uomini.
Voto 9/10