Magazine Cinema
di Margaret Von Trotta
con Barbara Sukowa, Axel Milberg, Janet McTeer, Julia Jentsch, Ulrich Noethen
Germania, Francia, Lussemburgo, 2012
genere, drammatico
durata, 113'
Cinquanta anni fa veniva pubblicato “La banalità del male”, il risultato del reportage scritto da Hannah Arendt sul processo ad Adolf Eichmann. Era stata lei stessa, ebrea e tedesca, a chiedere di seguire quel processo per il New Yorker. Lei che aveva già pubblicato “Le origini del totalitarismo” voleva vedere per capire, vedere il volto di chi è accusato di aver sterminato milioni di ebrei. Per la prima volta un criminale nazista veniva giudicato da un tribunale nel nuovo stato d'Israele. Quello ad Adolf Eichmann fu un processo fondamentale, e nella sua fase iniziale un processo spettacolo come la Arendt temeva. Proprio dal viaggio a Gerusalemme parte il film di Margharete Von Trotta, nelle sale italiane solo il 27 e il 28 gennaio, in occasione della giornata della memoria. Per parlare di Hannah Arendt, infatti, la regista tedesca sceglie un particolare periodo della vita della filosofa, forse anche il più difficile da raccontare al cinema. È difficile raccontare per immagini il pensiero nel suo farsi, nel suo evolversi, nel suo diffondersi come tenta di fare la Von Trotta che però, sembra all'altezza del difficile compito.
La Arendt che ci consegna, magistralmente interpretata da Barbara Sukowa, è prima di tutto una donna, prima ancora di essere una giornalista o una professoressa. Per quanto sia accusata di arroganza e freddezza - in molti le rimproverano di essere “priva di sentimenti”- risulta capace di comunicare, di dare ancora insegnamenti significativi, di arrivare anche a un grande pubblico. La Von Trotta punta lo sguardo sulle molteplici sfumature della protagonista, tratteggiando un ritratto completo tanto da riuscire a restituire la pregnanza del personaggio pubblico, quanto la complessità della persona privata. La coglie sia nella quotidianità della vita domestica, come moglie che ama ricambiata il proprio marito, sia nelle occasioni in cui è chiamata a confrontarsi con altri intellettuali, con i suoi amici e colleghi. Numerose sono anche le scene in cui la filosofa, in solitudine, appare intenta a riflettere. Come il maestro Heidegger le aveva insegnato, ricordato nel film in brevi ma intensi flash-back, pensare è l'attività precipua dell'uomo, e in un mondo che ha mostrato di essere disumano la Arendt non si stanca di esercitare questa attività e di insegnarla a sua volta. Perché proprio nell'assenza di pensiero, di riflessione individua la causa prima di quanto è accaduto, di quanto anche lei in prima persona ha vissuto, e che nel '61 decide di riconsiderare seguendo il processo ad Eichmann a Gerusalemme.
Quello che più la sconvolge è scoprire l'incolmabile abisso tra la mediocrità, la miseria dell'uomo e le azioni tremende che ha compiuto. In questo meccanismo nuovo e inaspettato che la tragedia dell'olocausto ha rivelato, si cela “la banalità del male”. Il male peggiore, quello assoluto è, come sottolinea nel memorabile discorso finale, quello dei “nessuno”, quello di chi non sente il peso della responsabilità delle proprie azioni, nel senso che non sente il dovere di rispondere a nessuno, neppure a se stesso. Un male compiuto appunto da chi non pensa, non ha intenzioni, e perciò non può neppure essere considerato umano. La Arendt comprende il significato profondo di questo meccanismo e lo rivela nella sua radicalità e novità prendendosi, lei si, la responsabilità di quanto afferma. Le reazioni sono immediate e violente.
Gli intellettuali, il mondo accademico, tutti si schierano contro le dichiarazioni di quella che viene descritta come un'ebrea che rinnega la sua stessa natura, che non ama il suo popolo. In molti, anche tra gli amici più cari, non le perdoneranno di aver descritto con assoluta oggettività, con lo spiccato acume critico che sempre l'aveva contraddistinta anche in quel processo, cercando di capire quello che era impossibile capire perché semplicemente disumano. E invece lei, che rifiuta di compiangersi come fosse una vittima, è ossessionata dal desiderio di comprendere per spiegare, quasi fosse la sua missione, e comprendere non è perdonare, come dirà poi a sua difesa. Comprendere è il dovere di chi vuole rimanere umano, di chi rifiuta la logica che sottende a qualsiasi totalitarismo, e che ha guidato i capi nazisti nello sterminio degli ebrei: uccidere un uomo prima di ucciderlo fisicamente. Ucciderlo due volte rendendolo prima superfluo, inutile, e poi carne da macello. Ma più che le vittime, non-umani erano diventati i carnefici, algidi burocrati come Adolf Eichmann, pronti ad eseguire gli ordini, a obbedire. Questo la Arendt vuole dimostrare, e lo dimostra a caro prezzo, pagando lei stessa per la verità.
Il film ricostruisce l'atmosfera pesante che si era innalzata intorno alla sua figura, negli Stati Uniti, in Europa e soprattutto in Israele, dove il libro è uscito solo nel 2002. Mostra tuttavia anche quanto la Arendt sia profondamente radicata a quell'ambiente intellettuale e accademico che la Von Trotta ha
ben delineato; quanto sia legata a quel secolo dei totalitarismi che a più riprese ha tentato di spiegare. Allo stesso tempo il film restituisce la forza straordinaria di questa donna, il suo coraggio, la sua attualità. Perciò dispiace che in Italia siano stati solo in pochi a vederlo. Un cinema come questo dovrebbe circolare nelle scuole, passare nelle televisioni, arrivare insomma ad un grande pubblico, ed ai ragazzi soprattutto, a quella platea di studenti a cui la Arendt più volte si rivolge nel film. A loro, più che ad ogni altro ha ancora molto da dire.
di Aretina Bellizzi
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