HANNO TUTTI RAGIONE - di Paolo Sorrentino

Creato il 05 novembre 2013 da Ilibri

Titolo: Hanno tutti ragione
Autore: Paolo Sorrentino
Editore: Feltrinelli
Anno: 2010

Non sopporto quelli che scartano un libro perché sulla copertina c’è uno scarafaggio. E – per inciso – non sopporto neanche quelli che “L’apparenza non conta”.

Non sopporto che in Italia se sei un bravo regista, allora fai film. Se sei uno che scrive – tutto sommato – bene, allora fai il giornalista e lo scrittore. Se sai fare degnamente entrambe le cose, scrittura e regia, allora bè sì... è un po’ troppo, mica vorrai fare tutto tu che poi qualcosa ti esce male; e calmati un attimo! e fai bene O l’uno O l’altro. Sempre per piacere, però. – L’Italia è il Paese del galateo e della disgiunzione categorica, ora che ci penso. L’inclusione dev’essere retaggio di pochi misteriosi sconosciuti o di una Repubblica ancora da venire.

Non sopporto che se un libro non straripa di avvenimenti, non straborda di fatti che manco Superman se vivesse due vite, allora: la narrativa è morta. Tanto per dire: la narrativa non è solo giallo, thriller psicologico o intrighi d’amore.

Non sopporto quelli che “Il libro di Sorrentino è solo una chiacchiera filosofica”. Non capisco difatti cosa c’è di riduttivo nella chiacchiera. O nella filosofia. – Che poi, in secoli forse meno bui di questo, mi pare che l’invettiva filosofica fosse un genere di “discreto successo”.

E poi non reggo tante altre robe, come Mimmo Repetto che, «all’aurora del giorno in cui ha compiuto cento anni», dà un nome a tutto ciò che non sopporta e lo mette per iscritto nella prefazione di questo libro. E non sopporta niente e nessuno il maestro Repetto, incluso se stesso e con un’unica eccezione: la sfumatura. La sfumatura. Il passaggio graduale di un colore da un tono a un altro. Qualcosa di non definito, di non assoluto. E che per questo non implica giudizio, NON SI PUÒ giudicare. A mio parere: la sfumatura come possibile chiave di lettura del libro (ci torno).

Poi la parola passa a Tony Pagoda, alias Tony P, discepolo di Mimmo nonché cantante melodico napoletano. «Quarantaquattro anni carichi e feroci», che a contarli è una sofferenza «perché uno per tutta la vita vorrebbe essere ragazzo, mica uno scherzo invecchiare». Così Tony ci dice di come si è barcamenato nella sua turbolenta pratica dell’esistenza, diviso tra tournée intercontinentali, cocaina, donne, responsabilità beffate, sensi di colpa più o meno sottaciuti, esilio volontario a Manaus tra scarafaggi enormi e puzzolenti e rientro prezzolato in Italia, sempre fuggendo la paura di invecchiare. Dalle sue parole emergono la merda dei bassifondi e le limousine, la donna bambola femmina e madonna e le prostitute, il mafioso e il ragazzino che vuol diventare torero, la baronessa Eleonora Fonseca e la popolana Rita Formisano, il traffichino Alberto Ratto e il ricco imprenditore Fabietto... un’umanità brulicante, variegata, che si arrabatta come può o che finge di spassarsela. Che in tutti loro serpeggia un’eterna, più o meno latente, insoddisfazione. E Tony la porta a galla, insieme alla propria. Tony, che ci si racconta come un novello messia, come un filosofo truffaldino o come un semplice uomo davanti al confessore il giorno prima dell’apocalisse. Tony, che non sai se ti irrita, a sentirlo, o se appassionarti alla sua franchezza politicamente scorretta. La sfumatura: non puoi decidere se compatire quel cantantucolo e i personaggi di cui parla, se biasimarli dal primo all’ultimo, se sono diversi e distanti da te o se in ciascuno di loro c’è qualcosa della tua fragilità:

«ogni uomo ha il suo dolore. Tutti, anche l’ultimo merdoso foruncolo al crepuscolo di uomo ha il suo dolore e ci sarebbe materiale sufficiente per rispettarlo. Ti verrebbe voglia di rispettarli tutti quanti gli uomini [...]. Ma poi non ci riesci. Perché, perlopiù, la cattiveria ti assale negli angoli sempre liberi, [...] ti tende agguati notturni al cuore [...] e si porta via i soprammobili del tuo corpo lasciandoti con un altro po’ di vuoto, [...], questa volta, contaminato con i sensi di colpa».

La chiacchiera di Toni, che si lascia infiltrare a ogni piè sospinto dal vernacolo napoletano (seppure opportunamente distillato), può apparire in superficie scherzosa e irridente, scanzonata e pure in grado di farci ridere – di noi stessi, però. I periodi brevi seguono il ritmo dei pensieri e conferiscono alla prosa di Sorrentino un ritmo veloce e sferzante, interrotto qua e là da periodi più ampollosi, talvolta barocchi. In entrambi i casi, il flusso di coscienza che si materializza sulla pagina esclude ogni possibilità di redenzione: la parlantina di Tony ci trascina, diventa asfissiante, ridonda di male di vivere. Forse questo può sembrare il limite – ma veramente stiamo facendo? –  di “Hanno tutti ragione”: manca la speranza, lo spiraglio, il buco nella rete o qualcosa a cui ci si possa aggrappare. «Lo dimentichiamo sempre e poi lo ricordiamo di nuovo [...] che questa cazzo di vita fa sempre, ininterrottamente, ottusamente, sempre, lo stesso giochetto del cazzo. Ti dà un po’ di gioia e subito dopo te la toglie». Ma se non lo avevamo capito con Leopardi, non possiamo farne una colpa a Sorrentino.

Un’ultima osservazione: se il racconto di Tony era stato inaugurato dalla prefazione di Mimmo Repetto, allo stesso modo, nel finale, la voce di Pagoda si impasta, per qualche momento, alla loquacità farneticante di due comparse eccentriche: il grandissimo estetista Tonino Paziente e lo scrittore ottantatreenne Gegè Raja. Mimmo, Tonino, Gegè e Tony P: quattro vite diverse ma, credo, una sola filosofia. La filosofia dell’hanno tutti ragione perché UNA ragione non esiste. La filosofia della sfumatura perché tutti ci abbiamo il nostro dolore da sopportare e allora meglio non giudicare nessuno, o giudicare tutti sapendo di essere giudicati a nostra volta (e da chiunque, non da Dio o chi per lui). Solo che «ci vuole la morte negli zigomi», la vecchiaia, per capire tutto questo, uscire consapevoli di indossare una maschera e coscienti che gli altri intorno ne indossano, a loro volta, una. E smettere di rincorrere il fantasma di un sé ragazzo che se n’è già andato da un pezzo. E sopportare il peso di questa pantomima generale comunemente detta vita.

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