Magazine Cinema
di Thomas Balmès
Francia, Finlandia, 2014
genere, documentario
durata, 80'
L'opera d'arte è di una solitudine infinita,
e nulla può raggiungerla meno della critica.
(Rainer Maria Rilke)
Chi scrive è in grave difficoltà a ricreare, seppur impressionisticamente, nero su bianco Happiness, ultimo docu–film di Thomas Balmès, con una "classica" recensione.
Quando sono uscita dal cinema ero felice, piena e appagata, avevo voglia di festeggiare, sebbene neanche ora sappia dire con esattezza cosa mi sentissi in dovere di celebrare.
Avevo assistito un prodotto di rara bellezza, per me realmente un problema (pro-ballein, venire addosso, essere investiti), se ancora oggi a quasi un mese di distanza faccio fatica a dar forma ai miei pensieri.
Temo che il mio possa essere solo un goffo e claudicante tentativo in confronto alla purezza e alla pace, al silenzio e poi alla melodia dell'opera.
Come ogni prodotto Happiness parla un linguaggio suo proprio e mai come ora mi rendo conto di quanto, per dirla con un celebre aforisma, tradurre sia tradire.
Usare le mie parole caduche e imperfette, per quanto centellinate e pianificate con cavillosa acribia, mi spaventa, ho paura che molto venga perso nella traduzione dal visivo alle parole, soprattutto considerando l'importanza che Balmès attribuisce alle immagini piuttosto che al dialogo, cui ricorre il meno possibile.
In Lettera a un giovane poeta Rainer Maria Rilke scrisse "nulla può toccare tanto poco un'opera d'arte quanto la critica: se ne ottengono sempre più o meno infelici malintesi. Le cose non si possono afferrare e dire come l'abitudine ci vorrebbe far credere; la maggior parte degli eventi sono indicibili, e più indicibile di tutto sono le opere d'arte, esistenze piene di mistero la cui vita, accanto all'effimera nostra, perdura".
Prima che parole, Happiness è per me il rosso avvolgente della tunica del protagonista e il suono delicato della campana tibetana.
Peyangki è un bambino di otto anni costretto dalla madre indigente a intraprendere gli studi spirituali in monastero. Contemporaneamente al ritiro del piccolo dal mondo, il suo paese è scosso dalla decisione di Jigme Singye Wangchuck di consentire l'uso di internet e tv, assicurando che un rapidissimo sviluppo sarebbe stato sinonimo di "Felicità interna lorda", termine da lui stesso coniato. Laya, il piccolo villaggio in cui vive la madre di Peyangki, due giorni a piedi dalla strada più vicina, aspettò per un decennio l'arrivo del l'elettricità.
Non è certo un caso se il docu—film, in competizione al Sundance Film Festival 2014 ha vinto il "documentary world cinema cinematography award". Peccato che in Italia, sia giunto in sordina.
Come il regista stesso disse durante il festival, l'idea era a quella di fare un film a proposito della televisione —tema non certamente nuovo, diremmo noi—. Ma qui sta il genio di Balmès: quale metodo migliore per parlare della TV, che andare dove ancora non esiste? Ecco che il documentario ci racconta la storia proprio attraverso gli occhi di Peyangki, praticamente l'unica persona a non aver ancora fatto esperienza in un contesto urbano maggiore del suo piccolo villaggio. I suoi grandi occhi si posano sulla realtà, scivolano stupefatti sulla scatola nera e ci guardano, spogliano lentamente, mettono a nudo, indagando il potere trasformativo — più o meno positivo— del medium più pervasivo dei nostri tempo.
Erica Belluzzi
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