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Tutto finisce a Hogwarts, dove tutto era cominciato.
E allora è giusto iniziare il commento dell'emozionante “Harry Potter e i Doni della Morte – Parte 2” di David Yates esaminando per l'ultima volta il castello di Hogwarts. Che nei film della serie ha mutato continuamente aspetto e visuale: un po' perché è una dimora magica, e molto perché ogni episodio gli ha dato una natura particolare in connessione con l'atmosfera del film.
Senza voler ripercorrere la serie (troverete tutto, anche con dei gentili riferimenti agli interventi di chi scrive, in “Harry Potter al cinema” di Valentina Oppezzo, edito da Le Mani), basta ricordare che nel primo episodio Hogwarts era una casa magica e fiabesca, con scaloni che si muovono cambiandone continuamente la topografia. Via via che la saga è diventata sempre più nera, Hogwarts ha assunto a sua volta caratteri più freddi e cupi. Nel presente film – dove la battaglia finale contro i Mangiamorte quasi distrugge l'edificio – Hogwarts ha sembra avere perso la sua interna magia. Durante il loro dominio i Mangiamorte avevano trasformato Hogwarts in un antro buio (il primo gesto della professoressa McGranitt dopo la liberazione è di accendere magicamente i bracieri della grande Sala), un tetro collegio dove gli studenti entrano in formazione a passo di marcia come nelle prigioni. E durante il combattimento Hogwarts è immota. Vero che la difendono le statue dei guerrieri di pietra, ma a vivificarli è stato l'incantesimo Piertotum Locomotor della McGranitt (stupenda l'espressione di Maggie Smith quando confida che aveva sempre desiderato usarlo). Nella lotta finale fra Harry Potter e Voldemort, un ponte di legno si schianta a metà e cede, e ricorda per un attimo quelle antiche scale, ma è per un getto di energia magica dalla bacchetta. Hogwarts crolla sotto i colpi; alla fine è un campo di battaglia costellato di rovine. Delizioso (e, salvo errore, non presente nel testo di J.K. Rowling) il particolare del custode Gazza che meccanicamente ripulisce con lo spazzolone un metro quadrato nel mare di macerie. Il direttore della fotografia Eduardo Serra, che aveva dipinto la “Parte I” con una tavolozza grigia e triste, riempie questa seconda parte del bagliore corrusco del fuoco.
Naturalmente Hogwarts sopravvivrà. Nell'epilogo, 19 anni dopo, l'Hogwarts Express parte per un nuovo anno di studi, con a bordo i figli dei nostri eroi. E questo è naturale in una serie attraversata dal concetto di morte e rinascita. La battaglia di Hogwarts è il Götterdämmerung della saga di Harry Potter. Come nel mito nordico, l'armata della malvagità, le forze inferiori della natura (giganti, ragni, lupi mannari scatenati) e il fuoco si alleano per distruggere la cittadella del bene. Ma poi, come il serpente che rinnova la sua pelle, il mondo rinasce. Nel grande momento della verità che conclude la saga tutti, i buoni come i malvagi, devono perdere qualcosa – molti, la vita stessa. Alla resurrezione “nera” di Voldemort fa da contrappunto la morte e resurrezione “bianca” di Harry Potter. Il concetto di sacrificio che sta alla base della storia è certamente leggibile in termini cristiani, ma non è cristiano in sé - appartiene a miti che erano già antichi quando Cristo predicava in Galilea. Il mondo perisce e si rinnova; è appropriato che il film termini accostando due immagini fondanti in questo senso: il treno per Hogwarts che parte dal binario 9¾ e i protagonisti, ora adulti, che si stringono insieme.
Tra parentesi, val la pena di osservare che la rinascita di Hogwarts, la scuola dei maghi, concretizza un concetto importante nella cultura anglosassone (mentre in Italia ci si è sforzati di fare l'esatto contrario): il valore di una tradizione educativa e civile, comprendente una continuità di consuetudini di vita scolastica e di comportamento formale: le materie di studio e lo spirito di corpo, le uniformi degli alunni e la toga dei professori, i regolamenti e le buone maniere; una tradizione capace di sopravvivere, con la sua forza umanistica, anche al cataclisma. Questo non l'ha mica inventato la Rowling! Salta alla memoria un film come “Addio Mr. Chips!” del 1939 – che poi è l'omaggio dell'America alla Gran Bretagna, esattamente come questa serie.
Nel momento in cui lodiamo – e sia dannato chi non prova una certa commozione – la conclusione della serie, non bisogna menzionare solo David Yates ma anche il geniale sceneggiatore Steve Kloves, autore di sette film su otto, che ha condensato le migliaia di pagine della Rowling in un sistema coerente, seppure con tagli dolorosi. In particolare il presente film sacrifica la backstory di Albus Silente alla sua progressione spietata verso lo scontro finale. La “Parte 2”, dopo la grande epopea di massa, reminiscente in alcune immagini de “Il Signore degli Anelli”, si allontana un po' dalle pagine della Rowling, non per tradirla ma per estenderla in modo “cinematografico” mettendo in scena un duello a due fra Voldemort e Harry Potter fra le rovine. Mentre Ron e Hermione si spostano appena un po' sullo sfondo, qui viene a termine e spiegazione l'odissea di Severus Piton (monumentale interpretazione di Alan Rickman), anche nell'esaltazione di uno squarcio poetico in flashback che colpisce come un fulmine entro l'atmosfera cupissima del film.
Ma Steve Kloves ha anche saputo cogliere nel romanzo e riportare nel film un dettaglio fondamentale: la caratterizzazione del secondo figlio di Harry, Albus Severus Potter, quale portatore della promessa – o del sogno – di nuove avventure.
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