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Seguendo il dibattito politico italiano, non è difficile notare i tanti paragoni, utilizzati spesso della nostra classe dirigente, tra il nostro Paese e gli altri membri dell’UE per giustificare o sponsorizzare quelle che ormai nel gergo comune vengono definite le “riforme essenziali”. Dalla politica energetica a quella del welfare, dell’ecologia all’uso dei mezzi pubblici, sembra che il nostro Paese sia l’asino della classe che tutto ha da imparare dagli studenti diligenti. Ora, questi paragoni non sempre sono fuori luogo, riteniamo che lo “shopping legislativo”, come lo definì l’ex Ministro Tremonti, sia salutare se all’estero si riescono a trovare formule che funzionano meglio e sopratutto che ben si adattano al nostro sistema Paese.
Una delle legislazioni che riceve i maggiori dalla nostra classe politica è quella che concerne il mercato del lavoro, la riforma Hartz, attuata in Germania tra il 2003 e il 2005 sotto il governo del cancelliere Gerhard Schröder. Questa riforma è stata attuata progressivamente attraverso quattro leggi: la prima è entrata in vigore il 1 gennaio 2003, la seconda il 1 aprile 2003, la terza il 1 gennaio 2004 e la quarta, la più importante, il 1 gennaio 2005. A grandi linee queste 4 leggi si possono descrivere così:
- Hartz I. Attraverso questa prima legge sono state semplificate le procedure di assunzione e sono stati introdotti dei “buoni” per la formazione, nonché i job center (i nostri centri per l’impiego), dove vengono assegnati dei “consiglieri”, che seguono il processo di inserimento nel mercato del lavoro, e le agenzie interinali;
- Hartz II. Il secondo step della riforma ha previsto l’introduzione dei contratti di Minijob, contratti di lavoro precari e meno tassati, e Midijob, contratti atipici che prevedono una retribuzione massima di 400 euro (non soggetti a contribuzione). Viene inoltre previsto il finanziamento di nuove forme di lavoro autonomo per i disoccupati (micro-imprese) e un maggior sostegno per gli over 50;
- Hartz III. Il terzo atto ha visto la trasformazione dell’Ufficio Federale del Lavoro in Agenzia Federale per l’Impiego;
- Hartz IV. La quarta legge è la più complessa e articolata perché prevede delle misure di inserimento e un sistema di assistenza economica unica al fine di ridurre la disoccupazione di lungo periodo.
Dal suo ingresso nella legislatura tedesca, nessun’altra riforma nella storia della Repubblica federale ha causato un’ondata di ricorsi al tribunale sociale tedesco come Hartz IV, dovuti a leggi e regolamenti poco chiari e ad una applicazione irregolare dei Jobcenter. Fino ad arrivare, nel febbraio 2010, alla Corte costituzionale di Karlsruhe che ha deciso che la riforma conteneva già un errore quando è stata approvata: non assicurerebbe il diritto ad una sussistenza dignitosa. Le controversie maggiori che accompagnano questa riforma riguardano:
- l’accorpamento del sussidio di disoccupazione con il sussidio sociale nell’assegno minimo di sussistenza per persone in cerca d’impiego;
- l’aumento delle occupazioni a bassa retribuzione e della precarietà;
- il fatto che non si tiene conto se il disoccupato ha lavorato prima e per quanto tempo;
- i minijobs non versano contributi e non hanno diritto né alla pensione, né all’assicurazione sanitaria;
- 1 Euro Job: accettare lavori socialmente utili, pagati un euro l’ora per non perdere i sussidi.
Ad oggi, a dieci anni dalla sua introduzione, la riforma viene salutata come un successo e la stessa Cancelliera Angela Merkel, non si ritrae nella attuale campagna elettorale nel sottolineare i risultati ottenuti nel mercato del lavoro: il numero degli occupati, con quasi 42 milioni di lavoratori, ha raggiunto un nuovo record, mentre la disoccupazione ha toccato il livello più basso degli ultimi 20 anni.
Quindi una riforma epocale che tutta Europa deve imitare? Un esempio a cui tendere per migliorare il boccheggiante mercato del lavoro italiano?
Non sembrerebbe proprio così. Una recente critica al sistema del mercato del lavoro tedesco e ai risultati del Jobwunder sbandierati dalla Cancelliera Merkel arriva direttamente da Dierk Hirschel, leader del sindacato dei servizi Ver.di, che in un recente articolo sul Frankfurter Rundschau sostiene che: “Una gran parte del presunto Jobwunder è il frutto di una pura redistribuzione del lavoro esistente. Se le aziende suddividono un lavoro a tempo pieno in tanti minijob e impieghi part-time, gli statistici di Norimberga sono felici: il numero degli occupati cresce. Dal 2000 ad oggi sono stati distrutti circa 1.5 milioni lavori a tempo pieno. In contemporanea le aziende hanno creato oltre 3 milioni di lavori part-time. Di conseguenza oggi fra Amburgo e Monaco non si lavora più di quanto si facesse 13 anni fa. Il numero delle ore di lavoro retribuito – il cosiddetto “volume di lavoro” – non è cresciuto. Inoltre, il presunto boom dell’occupazione non ha mai superato la portata di una ordinaria crescita congiunturale. Nella recente fase di ripresa – senza considerare la diversa durata della fase di crescita – l’occupazione non è aumentata più di quanto sia accaduto in passato.”
La crescita dell’occupazione, nata da un “gioco di numeri” viene confermata anche da uno studio francese del “Comitato di studi delle relazioni Franco-Tedesche” del 2010: “La riforma ha fatto cancellare milioni di persone dalle liste di disoccupazione solo per farle riapparire nelle liste di “lavoratori poveri”, che hanno lavori di meno di 15 ore settimanali, e pagati di conseguenza: anche meno di 400 euro mensili. Il sistema Hartz per questi “mini-jobs” e mini-salari, non prevede il versamento allo Stato dei contributi previdenziali e sanitari. Ciò ha incoraggiato molti datori di lavoro ad assumere mini-salariati sotto i 400 euro. Il lato sgradevole è che questi lavoratori, non contribuendo alla previdenza, non hanno pensione ne assicurazione sanitaria.”
Oltre a quello dell’occupazione, Hirschel evidenzia come un altro problema crescente sia quello degli squilibri all’interno del mercato del lavoro, che hanno portato la Germania al secondo posto al mondo per percentuale di lavoratori a basso salario, dietro solo gli USA: “Gli squilibri nel mercato del lavoro, sotto il governo Merkel, si sono ulteriormente aggravati. Circa un quarto degli occupati oggi lavora per meno di 9 € lordi l’ora. 1.4 miloni di tedeschi lavorano per un salario inferiore ai 5€ lordi l’ora. Una percentuale maggiore di lavoratori a basso salario c’è solo negli Stati Uniti.”
Sulla questione dei lavori a basso salario è intervenuto anche Gerhard Bosch, direttore dell’Institut Arbeit und Qualifikation dell’Università di Duisburg, in un articolo pubblicato dalla rivista on-line di analisi politica ed economica NachDenkSeiten. Il direttore Bosch, ricostruendo le cause che hanno portato alla svalutazione dei salari negli ultimi 15 anni in Germania, sottolinea come questa sia iniziata 10 anni prima delle riforme Hartz. Le cause principali, secondo Bosch, sono state due: la prima è stata la diversa politica dei datori di lavoro, che hanno approfittato degli alti tassi di disoccupazione per uscire dalle associazioni datoriali e non essere quindi più vincolati dai contratti collettivi. La seconda è stata la liberalizzazione di molti servizi pubblici (poste, ferrovie, trasporto locale) che ha portato sul mercato molti fornitori privati, non vincolati dai contratti collettivi, che hanno iniziato a fare concorrenza con pratiche di dumping salariale. In questo lungo processo le riforme Hartz hanno avuto un ruolo preciso: “Le riforme Hartz non sono state la causa di questo processo, ma hanno impedito una riduzione del numero di lavoratori a basso salario a partire dalla fase di ripresa del 2005. Le due forme di lavoro deregolamentate, interinale e mini-jobs, nel frattempo sono diventate sempre più diffuse: i lavoratori interinali sono cresciuti dai 300.000 del 2003 fino ai 900.000 del 2011, nello stesso periodo il numero di persone impiegate con un mini-job è cresciuto da 5.5 milioni fino a 7.5 milioni. Fra gli occupati con un mini-job, la quota di lavoratori a basso salario nel 2010 era dell’86%, fra gli interinali era pari a due terzi.”
Secondo sia Bosch che Hirschel la riforma Hartz non ha solo cambiato il mercato del lavoro tedesco. A seguito della svalutazione interna, la domanda domestica, e di conseguenza l’import, non hanno tenuto il passo dell’export, gli squilibri commerciali nell’Eurozona sono aumentati, creando le condizioni per la crisi Euro. Così l’impatto delle leggi Hartz ha finito per avere una dimensione europea. Bosch concludendo il suo articolo rende palese come un’eventuale adozione da parte degli altri Paesi UE di riforme del lavoro simili a quella tedesca sia matematicamente impossibile e non sia il viatico necessario per l’uscita dalla crisi, che invece passa dal cambio delle politiche d’austerità imposte dalla Germania stessa: “Come mezzo per affrontare la crisi Euro, il governo federale ha chiesto agli altri paesi europei di introdurre riforme del mercato del lavoro simili alle leggi Hartz. Questa politica, tuttavia, non può e non sarà applicata a tutti gli altri paesi, poiché solo abolendo le leggi della matematica è possibile che tutti i paesi abbiano dei surplus commerciali. Senza dubbio i paesi del sud hanno bisogno di aumentare la loro competitività. Ma la crisi che inghiotte l’Eurozona potrà essere superata solo se la Germania, l’economia più forte in Europa, si assume la responsabilità di creare crescita.”