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In occasione della manifestazione organizzata dalla cineteca di Milano per omaggiare la carriera cinematografica di Michael Caine e Harvey Keitel, abbiamo deciso di prendere spunto da due dei molti titoli presenti nella rassegna per raccontare il lavoro attoriale dei due interpreti. Iniziamo quindi da "Lo sguardo di Ulisse", diretto dal compianto Theo Anghelopoulos e interpretato da Keitel in una delle tante trasferte in terra europea, dove, ricordiamo, l'attore americano è tornato costantemente a lavorare.
Con un meritorio lavoro sul lavoro di attore, la Fondazione Cineteca Italiana ha programmato la rassegna “Michael Caine & Harvey Keitel” in corso a Milano fino al 12 luglio.
Visti recentemente insieme nell’ultimo film di Paolo Sorrentino “Youth – La giovinezza”, i due attori, ormai mostri sacri del cinema mondiale, sono omaggiati con cinque film a testa tra le loro interpretazioni più interessanti.
Harvey Keitel nasce a New York nel 1939 da una famiglia ebraica di origini polacche e rumene e il suo percorso formativo non si discosta molto dai tanti giovani americani della sua generazione: con alle spalle una giovinezza turbolenta passata tra le strade di Brooklyn (a cui rimarrà fortemente legato e si formeranno le sue prime amicizie) parte volontario giovanissimo nei Marines. Dopo l’esperienza militare, partecipa ai corsi del famoso Actor’s Studio e per una decina di anni lavora prevalentemente in teatro. Sarà Martin Scorsese ad accorgersi di lui e renderlo un volto iconico del suo cinema fin dagli inizi degli anni 70.
Sguardo tagliente su un fisico compatto e massiccio, la recitazione di Keitel la possiamo definire molto fisica dove il controllo dei movimenti del corpo si potenziano con una presenza scenica che difficilmente lascia indifferente lo spettatore – anche il più disattento. La faccia che appare scolpita fin da giovane, con la maturità ha acquistato in solidità espressiva che nelle interpretazioni dei personaggi dei suoi film riesce sempre a trasmettere emozioni profonde e naturali.
Prendiamo ad esempio il primo film della rassegna “Lo sguardo di Ulisse” (1995) di Theodoros Angelopoulos: Keitel interpreta un regista greco in esilio che torna nella sua terra alla ricerca di tre bobine perdute di un film dei fratelli Manakis, pionieri del cinema balcanico. Ispirato all’Odissea omerica, la vicenda mette in scena un viaggio metaforico nei Balcani moderni tra caduta del comunismo e la disgregazione della ex Jugoslavia. Attraverso inserti onirici e metastorici, il viaggio del regista interpretato da Keitel (di cui non si conosce il nome se non l’iniziale A) diventa un’elegia di un tempo che non c’è più, di una disgregazione della memoria, dove lo “sguardo” del titolo è una ricerca di ricordi del passato individuale e collettivo. Il cinema denuncia la sua fragilità e l’impossibilità di uno sguardo reale (se non ricostruito attraverso il sogno). Del resto, A arriva nella Sarajevo sotto assedio durante la guerra Serbo-Bosniaca dove finalmente trova le tre bobine del negativo del film dei Manakis mai sviluppato, custodite da S. curatore del museo del cinema della città. In un cielo plumbeo, in mezzo alle macerie della città distrutta e allo stremo, A riesce a convincere S. a tentare di sviluppare il film. Bellissima l’ultima parte de “Lo sguardo di Ulisse”, dove Sarajevo è immersa nella nebbia e solo così la città riprende una parvenza di normalità poiché i cecchini non possono sparare sulla cittadinanza inerme. Così, in mezzo alla nebbia lattea si ravviva una certa socialità con orchestre che suonano, giovani che ballano, famiglie e coppie che passeggiano. Ma la nebbia nasconde sempre e comunque la morte e S. con la sua famiglia viene ucciso, mentre A impotente, immobile e distante non vede. E l’urlo di Keitel è un suono che spezza le coltri del dolore, ma non il male insito nella Storia degli uomini. E l’ultima inquadratura di A piangente davanti alla proiezione del film dei Manakis di una pellicola bianca e senza immagini, diventa metafora dell’impossibilità del cinema e del suo autore a filmare il dolore ma solo a ricordarlo e trasmetterlo attraverso la testimonianza di A.
Proprio in un film come “Lo sguardo di Ulisse” si possono apprezzare le capacità recitative di Keitel: immerso in una luce naturale, in long take infiniti, specialmente nelle sequenze notturne o negli interni immersi nell’ombra, Keitel recita con la sola presenza fisica. Si avrà un primo piano sul suo volto dopo più di mezz’ora e la recitazione si basa sulla figura del corpo, elemento profilmico dinamico di un corpo alla ricerca della luce.
Interprete versatile, ottimo caratterista, la capacità di Keitel di rendere la complessità della recitazione si può riassumere in una mimesi convinta tra ruolo dell’attore e psicologia del personaggio. E queste caratteristiche dell’attore americano le ritroviamo puntualmente nelle altre pellicole della rassegna della Cineteca: dall’ufficiale napoleonico Gabriel Feraud, ottusamente immerso in un duello infinito con il rivale Armand D’Hubert (“I duellanti” di Ridley Scott, 1977) al rapinatore violento e leale fino alla morte ne “Le iene” (1992) di Quentin Tarantino; dal maori ribelle George Baines nel film dell’australiana Jane Campion (“Lezioni di Piano”, 1993) al poliziotto drogato e sessuomane de “Il cattivo tenente”(1992) di Abel Ferrara.
Keitel usa il corpo come oggetto scenico che riempie l’inquadratura potenziando la drammaticità della messa in quadro e sfruttando anche la sua nudità frontale (come ne “Lo sguardo di Ulisse”, “Il cattivo tenente”, “Lezioni di piano”) o solamente con una gestualità violenta e improvvisa in una quieta interpretazione (“I duellanti”, “Il cattivo tenente”, “Le iene”). I suoi sono personaggi sempre spinti da forti motivazioni individuali: sia che essi ricerchino una sorta di liberazione (“Lo sguardo di Ulisse”, “Il cattivo tenente”, “Lezioni di piano”) intellettuale, metafisica oppure culturale; sia che rincorrano ossessivamente uno scopo solo a loro conosciuto. Così Feraud è posseduto dal duello con D’Hubert nel film di Scott; Baines è attratto dal corpo dell’inglese Ada McGrath (Holly Hunter) immigrata nella Nuova Zelanda dell’800, donna muta che comunica con la musica, nell’opera della Campion; A è rapito dalla ricerca del film perduto ne “Lo sguardo di Ulisse”; mister White si assume l’onere di proteggere il compagno ferito ne “Le iene”; il cattivo tenente percorre una lenta discesa in un’autodistruzione liberatoria nel nero film di Ferrara.
I personaggi di Harvey Keitel difficilmente si dimenticano e l’attore riesce sempre a lasciare un segno indelebile del suo passaggio in ogni film da lui interpretato.
Antonio Pettierre
“Michael Caine & Harvey Keitel”, Fondazione Cineteca Italiana, Spazio Oberdan, Sala Alda Merini a Milano dal 3 al 12 luglio 2015 http://oberdan.cinetecamilano.it/eventi/michael-caine-harvey-keitel/
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