Sto seguendo con passione e molta soddisfazione, come milioni di persone in tutto il mondo, la seconda stagione della serie tv statunitense Homeland. Realizzata da Showtime e trasmessa in Italia da Fox, ha ottenuto numerosissimi premi tra cui gli Emmy 2012 e i Golden Globe 2012 e 2013, sia per i protagonisti maschile e femminile, Damian Lewis e Claire Danes, che come miglior serie drammatica. Più altri riconoscimenti tecnici.
Non sono la sola a pensare che è quanto di meglio ci sia in circolazione al momento. I temi sono intriganti e avvincenti: il ritorno di un marine dopo 8 anni di prigionia in Iraq, il timore che sia tornato come spia, la lotta al terrorismo. Gli attori sono formidabili e la sceneggiatura ci trascina proponendoci delle chiavi di lettura in una puntata e ribaltandole in quella successiva. Per non parlare dei colpi di scena, non scontati né vuoti di significato tanto per stupire. Insomma, ogni settimana è un piacere: si stacca la spina, ci si dimentica di quel che ci circonda, almeno per i 50 minuti circa dell’episodio, e ci si lascia trasportare dalla storia.
Dicevo, dunque, che pensavo fosse il meglio tra le serie tv, finché non sono stata incuriosita dalla serie madre di Homeland, Hatufim (tradotto Prisoners of war), realizzata in Israele e della quale la 20th Century Fox Television ha acquistato i diritti per farne la versione made in USA. Al momento ho potuto vedere soltanto la prima stagione, dieci episodi in tutto che ho trovato sottotitolati in inglese, e ne sono entusiasta. Davvero la migliore in assoluto.
La storia è leggermente diversa rispetto a Homeland. I soldati fatti prigionieri sono tre e sono rimasti in cattività per ben 17 anni. Ma qui, oltre a esplorare il rischio di un tradimento da parte dei tre, si indagano a fondo le dinamiche psicologiche, non solo degli uomini tornati a casa, ma anche dei loro familiari. Tutti hanno bisogno di elaborare quel che è accaduto, ma devono anche affrontare il rientro nella “vita normale”. Questo vale sia per che è tornato, che trova persone trasformate dagli anni, dall’attesa, dalla sofferenza, figli non nati o piccolissimi all’epoca del rapimento, aspettative proprie e altrui. Ma vale anche per chi li deve accogliere, chi deve far entrate nella propria vita dei perfetti sconosciuti.
Magnifici anche i personaggi di contorno, tra cui spicca Ilan, un uomo che dedica la vita ad aiutare e sostenere chi ha perso un familiare in guerra, ma soprattutto in un attentato terroristico.
Questa attenzione alla psicologia dei personaggi nulla toglie alla suspence della storia che viene narrata anche attraverso dei terribili flashback ambientati durante la prigionia e che offre anche dei notevoli colpi di scena.
I personaggi sono ben disegnati, vivi, ti restano in testa per quanto sono veri e toccanti le loro vicende, e questo, ovviamente, anche grazie alla bravura degli interpreti, che esprimono l’orrore che ancora li perseguita, oltre che con le parole, con la voce, lo sguardo, la postura.
La prima stagione, trasmessa in Israele nella prima metà del 2010, è andata in onda, sottotitolata in inglese, nel 2012 in Gran Bretagna e negli USA, è stata venduta a molti paesi europei, ma non all’Italia. La seconda stagione è stata vista in Israele dalla fine dell’anno scorso e ora aspettiamo con ansia che venga sottotitolata per potercela godere.