La X edizione dell’Asian Film Festival di Reggio Emilia (16-24 marzo 2012) dedica la retrospettiva a Tsukamoto Shin'ya, che sarà presente al Festival e riceverà un premio alla carriera. In occasione di tale importante evento, Sonatine pubblica le schede critiche di tutti i film di Tsukamoto, che andranno a configurare uno Speciale Tsukamoto sempre consultabile online.
Haze (id.). Regia, soggetto, sceneggiatura, fotografia,scenografia e montaggio: Tsukamoto Shin’ya. Trucco: Oda Takashi. Musica:Ishikawa Chū. Interpreti: Tsukamoto Shin’ya, FujiKaori. Produzione:Tsukamoto Shin’ya, Kawahara Shin’ichi per Gold View Company. Durata: 49’. Annodi produzione: 2005
Unuomo si ritrova, senza sapere perché, nell’oscurità di un sinistro cunicolo. Hauna ferita allo stomaco da cui perde sangue e non ricorda niente di ciò che èaccaduto prima di trovarsi lì. Avanza tentoni in spazi sempre più ristretti, daun buco una sorta di martello lo colpisce ripetutamente, dei chiodi glitrafiggono i piedi. Le immagini di una donna ferita seduta su un tavolosembrano colpire la sua mente. Sempre più disperato, l’uomo si chiede se nonsia scoppiata una guerra, se una setta religiosa non gli abbia fatto illavaggio del cervello, o se non si tratti del terribile scherzo di un riccopervertito? Mentre avanza strisciando in mezzo a brandelli di corpi e viscereumane che
gli galleggiano intorno, incontrauna donna persa quanto lui in quel luogo misterioso. Più decisa del suocompagno di sventura, la donna si mette alla ricerca di una via d’uscita,gettandosi nell’acqua di un canale pieno di membra umane fatte a pezzi. L’uomola segue per ritrovarsi poi in una sorta di pozzo, dalla cui sommità provieneuna luce. Sfondata a fatica una lastra di metallo, riesce a entrare in unacamera finalmente illuminata, dove ritrova la donna che giace in una pozza disangue. L’uomo, ormai anziano e solo in una stanza, passa davanti a unafotografia della donna, ed esce su un terrazzo inondato dal sole dove sonoappesi ad asciugare diversi panni tutti di colore bianco. L’uomo e la donna,forse prima che tutto sia accaduto, sono seduti a un tavolo e guardano verso qualcosache li illumina, come potrebbe fare lo schermo di un televisore acceso.Giratoin digitale, nel corso di due sole settimane, Haze rappresenta per il suo carattere “sperimentale” un ritornoallo Tsukamoto delle origini. Innanzitutto, sul piano della costruzionenarrativa, il film rifiuta di spiegarci le origini del mistero, il perchél’uomo e la donna si ritrovino in quel luogo. Allo stesso modo il suo epilogo,che si articola in tre situazioni diverse (l’uomo e la donna sanguinanti nellastanza illuminata, l’uomo da solo e invecchiato sul terrazzo di un edificio, idue seduti a un tavolo), anziché chiudere la storia, la lascia sospesa in unatotale ambiguità, muovendosi fra il presente, il futuro e un possibile passato.Queste incertezze e mancate spiegazioni danno al film una dimensione metaforica come se il viaggiodel protagonista fosse una sorta di (neo)nascita – vedi la scena del “pozzo diluce” – che porta ad un mondo fatto, però, dagli stessi incubi di quello da cuisi proviene (quando nel cunicolo buio la donna si sveglia, dopo essersi addormentata,dice di aver sognato di essere in una stanza: «Mi sono sentita sola. È statocome ritrovarsi in un posto come questo. Faceva paura!», al che l’uomoreplica: «Forse si tratta del posto dovestavi prima di finire qui. Non ci aspetta niente di particolare anche se inqualche modo riusciremo ad uscire»). Proiettato in una sorta di angoscianteeterno ritorno fatto di dolore e paura, Hazeaccentua il senso di claustrofobia della sua storia attraverso l’uso di effetti– a volte favoriti dal digitale – di camera-to-the-skin(la prossimità ai volti dei personaggi), di una particolare naturalezza dellaluce nelle riprese dell’oscuro cunicolo, della continua instabilità dellaripresa, di frequenti jump-cut, diimmagini oblique e angolazioni accentuate, insieme con una colonna sonora dovei rumori e le musiche (del solito Ishikawa Chū) si fondono in un amalgama noisy fatto di grida, mugolii, respiri, cigolii, tonfi e suonimetallici dal carattere decisamente inquietante. Ilcorpo, costretto e serrato in uno spazio chiuso, e il dolore fisico, delleferite e dei colpi ricevuti, divengono in Hazeun’unica cosa con una mente lacerata dall’angoscia provocata dalla perdita dimemoria e dall’impossibilità di dare una spiegazione a ciò che è accaduto e staaccadendo. Il labirinto in cui si trova il protagonista del film (interpretatodallo stesso regista, qui one-man-bandpiù che mai) è innanzitutto un labirinto mentale, espressione di una condizioneumana che non lascia alcuna speranza, né possibilità di salvezza. Mente, corpoe materia – le tre principali ossessioni di Tsukamoto – si saldano qui allaperfezione e diventano ancora una volta un’unica cosa. Ma ora, a differenza chein passato, come bene ha notato Eric Dindian, «non è più l’elemento urbano cheinveste il corpo come in Tetsuo, mal’umano che infiltra il corpo dell’urbano» (www.devildead.com).Nell’intervistacontenuta fra gli extra del DVD di Haze(distribuito in Italia dalla No Shame), Tsukamoto indica, fra le fonti delsoggetto, la scena di La grande fuga(The Great Escape, John Sturgess,1963) in cui il personaggio di Charles Bronson ha un attacco di claustrofobianel tunnel scavato dai prigionieri. Molti critici hanno poi rinvenuto leanalogie (pur parziali) del film con altre e più recenti opere come Cube – Il cubo (Cube, Vincenzo Natali, 1998), Hypercube– Cubo 2 (Hypercube – Cube 2,Andzrej Sekula, 2002) e The Saw – L’enigmista (The Saw, James Wan, Darren Lyn Bousman,2004). Altri film ancora possono essere correlati ad Haze, come i tanti recenti sul tema della perdita di memoria, a partireda Memento (Christopher Nolan, 2000),e, per quel che riguarda il ritrovarsi in un luogo chiuso e senza via d’uscita,Symbol (Matsumoto Toshio, 2009), Kill Bill (Quentin Tarantino, 2003, lascena di Uma Thurman nella bara), Buried– Sepolto (Sepolto vivo, Rodrigo Córtez, 2010) e quell’Old Boy (Park Chan-wook, 2003) che lo stesso Haze sembra voler ricordare quando il protagonista si chiede se adarchitettare questo terribile scherzo non sia stato un ricco pervertito. Non èforse questo il segno di un certo modo che l’uomo ha oggi di vivere il suorapporto col mondo in forme claustrofobiche, di smarrimento, cattività eimpotenza? [DarioTomasi]