Dopo la morte del soldato israeliano, il coprifuoco imposto dall’esercito e i festeggiamenti israeliani del Sukkot, il fragile equilibrio di Hebron potrebbe mettere a rischio la ripresa dei negoziati di “pace”
Hebron, Cisgiordania del sud, 200.000 palestinesi, 700 ebrei che vivono all’interno della città vecchia, 5000 soldati che li proteggono.
In questi giorni in Israele si festeggia il Sukkot, otto giorni di pellegrinaggio in onore del ritorno degli ebrei verso la terra promessa. Dato che ormai nella terra promessa ci vivono stabilmente, molti ebrei hanno scelto di dirigere il pellegrinaggio verso il secondo luogo sacro per l’ebraismo, la grotta di Macpela, o tomba di Abramo per i musulmani. Questo luogo religioso è uno dei simboli di questo decennale conflitto. La tomba di Abramo è divisa esattamente a metà tra la moschea e la sinagoga, circondata da un vetro antiproiettile, con entrate separate per musulmani ed ebrei e relativi controlli di sicurezza, in particolare per i primi.
Per agevolare il pellegrinaggio di circa 11.000 coloni ebrei, l’esercito ha costretto molti dei negozianti a chiudere le loro attività, fatto che ha contribuito ad aumentare l’attrito tra la maggioranza palestinese e la minoranza ebraica. Tensione che ha toccato l’apice domenica 22 verso le 18, quando un soldato dell’IDF è stato ucciso nell’Area H2, proprio accanto alla Moschea di Abramo. A questo proposito, è utile ricordare che alla città è stato applicato, nel 1997, il Protocollo di Hebron che ha creato due distinti settori: Hebron 1, conosciuto come zona H1, sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese, ed Hebron 2, circa il 20% della città, controllata dall’esercito israeliano e preclusa al passaggio dei palestinesi non residenti, così come la vicina Shuhada Street. Secondo il comunicato emanato dal portavoce dell’esercito occupante, il sergente Gabriel Kobi, 20 anni, sarebbe stato colpito al collo probabilmente da un cecchino palestinese. Trasportato subito all’ospedale Shaare Zedek di Gerusalemme Ovest, è morto dopo poche ore.
L’uccisione del soldato a Hebron comporta così solo ulteriori perdite per la popolazione palestinese. Da una parte negozi costretti a chiudere, aggressioni quotidiane, case occupate, continue perquisizioni e limitazioni della libertà per motivi di sicurezza. Dall’altra il pericolo di fornire a Israele l’alibi perfetto per fare un passo indietro rispetto ai negoziati, addossando la colpa ai “vicini terroristi”, come da copioni già visti. Il ministro Naftali Bennett, leader del partito della Casa Ebraica, appartenente all’ala della destra sionista, ha richiesto al governo di bloccare l’iter di scarcerazione dei primi 104 prigionieri palestinesi.
Il clima di tensione è percepibile non solo dai continui scontri che in quest’ultima settimana hanno animato Hebron, ma anche dalle facce dei soldati che piantonano l’area H2, sempre più tesi e preoccupati, intrappolati anche loro in quell’uniforme che plasma inevitabilmente le loro vite, esponendoli a rischi e situazioni che non tutti hanno la forza di reggere. Una relazione pubblicata lo scorso gennaio dall’ufficio di sicurezza e controllo dell’esercito israeliano, ha riportato infatti che il suicidio è stato la causa principale di morte nell’esercito durante il 2012. Fatto già reso noto dal quotidiano Hareetz, che sottolinea come negli ultimi dieci anni si siano suicidati più di 230 soldati.
Vite che vanno a sommarsi al disastroso conto di un’occupazione che sembra destinata a continuare ad ogni costo.