di Michele Marsonet. Ancora una volta Henry Kissinger, nonostante i suoi 91 anni, dimostra una lucidità estrema nelle analisi di politica estera. Al contrario dell’attuale amministrazione americana, gli è ben chiaro che occorre cambiare registro poiché il mondo ha subito mutamenti radicali dopo la fine dell’URSS e della Guerra Fredda. E ai mutamenti bisogna adattarsi in modo intelligente, senza pretendere che siano essi a piegarsi ai nostri assunti teorici.
Dopo aver scritto alcuni mesi orsono che i Paesi occidentali – USA in testa e UE accodata – stavano sbagliando l’approccio al problema ucraino, il che avrebbe comportato quale conseguenza un’inevitabile escalation della tensione (previsione pienamente azzeccata), l’ex Segretario di Stato ora allarga il discorso in un articolo da poco uscito sul “Wall Street Journal” e comparso anche in traduzione italiana, dedicato al concetto di “ordine mondiale”.
E’, quest’ultimo, uno dei grandi tormentoni che hanno animato il dibattito politico internazionale da alcuni decenni a questa parte, unitamente a quello – ancor più popolare – di “guerra democratica” (o giusta, o umanitaria). Scomparso l’avversario sovietico, in Occidente si è fatta strada l’idea che fosse giunto il momento di allargare al mondo intero la nozione di democrazia liberale che costituisce il fondamento dei nostri ordinamenti politici.
Francis Fukuyama è stato il principale teorico di tale strategia, che è poi fallita producendo invece un caos che ora si stenta a fronteggiare (e non è affatto detto che ci si riesca). Kissinger ha imparato la lezione anche perché conosce a fondo la storia avendo radici accademiche, e sa benissimo che essa è soggetta a fasi assai spesso difficili da prevedere.
Nota quindi che il proposito occidentale di dar vita a un ordine mondiale formato da Stati in cui venga salvaguardata la libertà e la dignità individuale, la partecipazione diretta dei cittadini alla vita politica mediante libere elezioni e la promozione dei diritti umani (come noi li intendiamo), può essere un’ottima fonte d’ispirazione e una meta verso la quale tendere. Senza fissare, però, tempi certi per la sua realizzazione.
Il realismo politico impone infatti di guardarsi intorno per verificare qual è la situazione concreta “sul campo”, senza premere l’acceleratore affinché la meta stessa venga raggiunta in tempi brevi. Rivolgendosi in particolare agli Stati Uniti, Kissinger chiede di appurare con esattezza quali pericoli intendono prevenire e quali obiettivi si propongono di conseguire. C’è insomma bisogno di quella strategia che Barack Obama ha francamente confessato di non avere (parlando del califfato islamico, ma tale assenza è facilmente allargabile a molti altri contesti).
Lo storico ed ex diplomatico americano (nato in Europa, lo si rammenti) conclude il suo saggio con un ragionamento di mero buonsenso. La celebrazione di principi universali dev’essere sempre accompagnata dal riconoscimento della peculiarità delle storie di altre aree del globo, nelle quali culture e punti di vista differiscono dai nostri perché diversi sono i principi che le hanno originate. In altri termini, i principi generali devono essere supportati da una strategia geopolitica globale.
Purtroppo non è stato così. La politica estera di Hillary Clinton (più che di Obama) si è basata sulla ferma convinzione che bastasse rovesciare alcuni dittatori per spianare la strada alla democrazia liberale ovunque, quasi si trattasse di una conseguenza logica. E non solo alla democrazia liberale: anche ai diritti umani e alla parità di genere. I risultati ora si vedono, e sono negativi in toto. E’ improbabile che le tesi di Kissinger vengano meditate da Obama, e chissà se lo saranno dal prossimo Presidente USA.