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Vedere un film di Spike Jonze è un'esperienza che non può lasciare indifferenti. E il suo ultimo lavoro presentato al Festival del film di Roma, Her, non smentisce questa affermazione.
Partiamo innanzitutto dalla confezione del film, perché Jonze ambienta la sua storia in una Los Angeles del futuro prossimo venturo, una realtà che riconosciamo in tutte le sue caratteristiche perché è in buona parte identica a quella nella quale viviamo, ma dove alcuni tratti hanno subito una significativa accelerazione tecnologica. Un mondo nel quale la comunicazione visuale è predominante, la tecnologia è pervasiva, l'interazione con le macchine è vocale e basata sul linguaggio naturale. Un mondo nel quale gli appartamenti sono bellissimi, con grandi vetrate a dominare queste enormi città di vetro e cemento che sono un monumento all'opera dell'uomo, ma dove gli edifici sono anonimi come degli alberghi. Un mondo dove le persone vivono perennemente connesse e interagiscono in maniera fluida con le tecnologie, ma vestono in maniera "vintage" e si circondano di pezzi di arredamento che li rimandano a un passato pre-tecnologico. Un mondo popolato di un'umanità sempre più affastellata (la scena sulla spiaggia è straordinaria), ma nel quale i singoli sono sempre più soli e isolati dal contesto, causa e conseguenza dell'essere sempre impegnati in conversazioni virtuali.
Una specie di futuro distopico, ma non del tutto improbabile.
Theodore Twombly (uno maestoso Joaquin Phoenix) è un moderno Cyrano, uno che per lavoro scrive lettere (a dire la verità le detta a un computer che le traduce nella scrittura della persona che l'ha richiesta) per conto di chi non ha le parole per esprimere i propri sentimenti.
Theodore è un uomo dotato di una spiccata sensibilità, che soffre della separazione in corso con la moglie amatissima, Catherine (Rooney Mara), e cerca - come tutti - la propria personale via d'uscita alla solitudine, trovandola in Samantha (la sensualissima voce di Scarlett Johansson), il sistema operativo basato sull'intelligenza artificiale che apprende dalla relazione con l'essere umano diventando a sua volta sempre più "umana".
Ed eccoci al cuore del film. Le parole e i sentimenti. La solitudine e le relazioni. Il mistero inesauribile ed inestricabile della nostra dimensione affettiva.
Se - come dice Theodore - innamorarsi è una forma di follia socialmente accettabile, resta da chiedersi perché ci innamoriamo e di cosa ci innamoriamo per arrivare a capire chi siamo. E Theodore di fronte a una personalità senza fisicità com'è quella di Samantha è costretto a mettersi a nudo.
Esiste una separazione tra le parole che veicolano i sentimenti e la fisicità nella quale si incarnano? E le parole sono in grado di tradurre qualunque moto interiore?
Oppure di un legame vero con una persona restano principalmente le sensazioni fisiche, la condivisione di esperienze, il contatto, ovvero tutto ciò che l'interiorità di Theodore continuamente porta a galla del rapporto con la sua ex moglie?
E anche ammettendo che la fisicità sia un dato complementare, ma non indispensabile, le parole che accendono le nostre emozioni provengono realmente dall'esterno, o sono piuttosto la proiezione del nostro io composito, l'esplicitazione e l'esternalizzazione della nostra conversazione interiore, quella attraverso la quale cresciamo come persone e ci evolviamo nel tempo?
Non sarà forse che da sempre e per sempre siamo e saremo impegnati a cercare una persona al di fuori di noi che dia linfa a questo dialogo e che ci crei l'illusione di poter entrare in una connessione profonda con qualcuno che non siamo noi stessi?
Non sarà forse che innamorarsi significa riconoscere in un'altra persona una parte di sé ancora non esplicita e percorrere un pezzo di strada insieme? E che la fine di un amore coincida con la naturale evoluzione del proprio sé attraverso le esperienze che abbiamo vissuto e che inevitabilmente ci hanno cambiato?
Queste domande, in buona parte senza risposta, attraversano tutto il film di Jonze, declinandosi in tutta la gamma possibile di sfumature che va dall'esilarante al malinconico.
Riferendosi alla storia con Catherine e alle proprie prospettive emotive, Theodore dice: "Mi sembra di aver già vissuto tutto con la massima intensità. E che ogni emozione che proverò di qui in avanti sarà solo una copia sbiadita di ciò che ho già vissuto". Ma la storia che Jonze ci racconta sembra dimostrare che non è così. La coazione a ripetere quel processo che si chiama innamoramento nasce dalla novità del proprio sé all'interno del percorso che in ogni istante ci fa essere differenti dall'istante precedente.
Accettare che ogni persona che abbiamo amato è una parte di noi e del nostro cammino significa fare dolorosamente - e al contempo serenamente - pace con i propri sentimenti e con l'inafferrabilità della nostra complessità.
Sceneggiatura quasi senza sbavature. Merita persino una seconda visione.
Menzione speciale per la colonna sonora degli Arcade Fire.
Voto: 4/5
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