Ho indugiato davvero un po’ troppo nel concedermi il piacere di vedere Her di Spike Jonze. Certi film per me sono come un colpo di fulmine: capisco a pelle che mi piaceranno, mi bastano pochi fotogrammi perché mi entrino dentro e lì si fermino, lasciando un segno, o forse solo allargando il solco che c’è già. Solo pochi istanti del trailer mi hanno fatto innamorare di questa storia, di queste immagini, di questa idea. Tralasciando la bellezza della regia - bella da far male - è proprio la storia ad avermi sedotta. Si può amare qualcuno che non esiste? La risposta è sì.
La trama è molto semplice, seppur geniale: in una dimensione distopica Theodore, dopo il fallimento del matrimonio con quella che era la sua migliore amica, non riesce più ad intrecciare rapporti con le persone. Questo fino a quando Samantha entra nella sua vita, stravolgendola, regalandogli emozioni e sentimenti che non pensava di poter più provare. L’unico problema è che Samantha è un sistema operativo di ultima generazione, è l’intelligenza artificiale del suo personal computer, suo e di altre ottomilatrecentosedici persone.
Mi rendo conto che potrebbe sembrare qualcosa di malato detto così, eppure la purezza dei sentimenti che provano Theodore e Samantha ha qualcosa di disarmante. Mi sono trovata ad emozionarmi al loro primo “ti amo”, a provare un brivido al loro primo amplesso, a piangere quando la loro storia finisce. Perché c’è poca differenza con quello che capita nella vita reale, quando ci si innamora di una persona, dipingendola nella propria testa in un modo completamente diverso da quello che è. Non è forse la stessa cosa? Attribuiamo alle persone di cui siamo innamorati doti e caratteristiche che non gli appartengono per davvero; le plasmiamo ad immagine e somiglianza di quello che noi vorremmo fossero e le idolatriamo, fino ad arrivare un giorno all’amara realtà, a comprendere che sono persone diverse. E talvolta le amiamo ancora di più per la loro diversità, ma più spesso restiamo delusi, frustrati, affranti. Cosa c’è dunque di diverso dall’innamorarsi di un’intelligenza artificiale, che sì, è programmata, ma poi cresce, si espande, prende consapevolezza di sé, fino ad annichilirsi volontariamente nel tutto?
Cos’è davvero reale? Quello che si può toccare con mano, che si può vedere con gli occhi, che è tangibile e visibile? Oppure quello che proviamo, che percepiamo con i sensi, con l’anima, col cuore, con l’intelletto. Qual è la linea di demarcazione tra l’essere e il non essere? Chi mi assicura che i miei sentimenti sono reali solo se sono indirizzati a qualcosa che pulsa, che respira, che vive? Non si può forse amare un ricordo, una proiezione? Perché non un’ideale?
Forse non esistono risposte a queste domande e quello che conta è solo gioire.
«Sono arrivata alla conclusione che la vita dura solo un attimo e finché la vivo mi voglio concedere gioia. Perciò vaffanculo!»