di Giovanni Inzerillo
Le protocole compassionel, ultimo romanzo di Guibert, apparso in Francia nel 1991 per le edizioni Gallimard venne pubblicato in Italia nel 1995 per i tipi della Marsilio con il titolo Le regole della pietà.
Autore assai discusso in Francia ancora oggi, specie a seguito della pubblicazione di La pudeur ou l’impudeur, agghiacciante documentario degli ultimi mesi della sua vita, in Italia di lui non resta che qualche timida ombra.
Morire di Aids non è certo un atto eroico di grande interesse – la scaramanzia che ci contraddistingue coinvolge, in un certo senso, anche il pubblico dei lettori -, ragion per cui a parte Guibert persino i nostri morti malati (si pensi a Dario Bellezza o Pier Vittorio Tondelli) non hanno l’attenzione e la risonanza che meriterebbero.
Per uno strano capriccio del destino solo pochi giorni separarono le morti di Tondelli e di Guibert, avvenute rispettivamente il 16 dicembre del 1991 e il 27 dicembre dello stesso anno; come anche un progetto cinematografico accomunò entrambi nella fase finale della loro vita (la sceneggiatura di Tondelli, curata insieme a Luciano Mannuzzi, apparve sugli schermi nel 1992 con il titolo di Sabato italiano).
Ma sul piano più squisitamente letterario l’autore francese ha punti in comune con il nostro Dario Bellezza. Entrambi affidano alla pagina scritta il loro addio alla vita creando, l’uno in prosa l’altro in versi, splendidi epitaffi funebri di cruda e rara delicatezza. Alcuni versi di Proclama sul fascino, apparso nel 1996 (anno della morte di Bellezza) suonano come un dolce distacco dalla vita, senza remore o timori:
Ti aspetto col buio, nel buio. / E se la tregua convince le bellezze / davanti a me – nel letto sfatto / saranno – o come presente / il cuore vandalo verso la fine / trova la tregua al nascere / e al morire – sintassi estrema / prima di morire, morire. / Unica parola vietata, sincope, / deragliata, la fine, di tutto… […] Saresti morto di AIDS / poeta assassinato / se fossi ancora restato / fra i vivi incerti / chi ti piange è perduto / al ricordo e al passato.
Il romanzo di Guibert, invece, sembra muoversi in una duplice direzione. Tutta la prima parte, divisa in brevi segmenti narrativi, appare come una puntigliosa e asfissiante descrizione della malattia e delle continue cure ospedaliere. Già l’incipit del romanzo è una minuziosa descrizione di un corpo allo stremo delle forze, più che mai vicino al disfacimento, all’annullamento:
«Ero allo stremo delle forze fisiche e morali […], soffrivo quando alzavo il braccio per pettinarmi, spegnere la luce del bagno, infilare o sfilare un vestito […], un corpo di vecchio si era impadronito del mio corpo di uomo di trentacinque anni […]. Questo corpo scarnificato che il massaggiatore manipolava brutalmente per dargli vita, e che lasciava ansimante, caldo, formicolante, come esultante dopo il suo lavoro, io lo ritrovavo ogni mattina come una visione da Auschwitz […]. Non posso dire nemmeno di avere pietà per questo essere, dipende dai giorni, a volte ho l’impressione che se la caverà perché c’è ben gente che è tornata da Auschwitz, altre volte è chiaro che è condannato, in cammino verso la tomba, ineluttabilmente.»
Quella che Guibert si sforza di tracciare, con dovizie di dettagli specie nella descrizione degli esami clinici a cui andava sottoposto, è l’immagine di un moribondo, sempre più lontano dalla vita ma per nulla stanco di vivere: «Mi dicevano moribondo quando mi sentivo bene, quando mi sentivo in punto di morte mi dicevano: – non pensa di esagerare un po’? – ».
Sin da subito appare però chiara la volontà di rigenerarsi, l’impegno nel continuare a sopravvivere, il desiderio di lasciare un ricordo, di divenire immortale.
Non sono certo le pasticche dei farmaci retrovirali a tener viva la speranza – per altro, il farmaco DDI assunto è quello per lui rubato a un ballerino morto – ma alla scrittura e alla fotografia (quest’ultima nelle pagine conclusive del romanzo si trasforma in macchina da presa) Guibert affida il compito della guarigione:
«Sono oggi cinque giorni che prendo il farmaco del morto, l’altro ieri mi sono sentito subito un po’ meglio fin dal mattino e ho cominciato questo libro che, anche se è cupo, mi pare abbia un certo entusiasmo, se non vivacità che sta nella dinamica della scrittura e in ciò che essa può avere d’imprevisto […]. Il rapporto col mio corpo era cambiato da quando avevo avuto l’idea di sacrificarlo al pittore e sulla scena del teatro: si sarebbe detta una sfida, un atto di coraggio e dignità spinti all’estremo, ora che c’era solo pietà, una grande pietà per questo corpo distrutto, che bisognava preservare dagli sguardi.»
Se è vero dunque che la morte non guarda in faccia nessuno, giovani compresi, la scrittura può contemplare la morte fino a renderla, ossimoricamente, immortale, vita che si rigenera, creazione. La scrittura acquista così forza vitale:
«E’ quando scrivo che sono più vivo. Le parole sono belle, le parole sono giuste, le parole sono vittoriose, non dispiaccia a David, che è rimasto scandalizzato dallo slogan pubblicitario: «La prima vittoria delle parole sull’AIDS» […]. Sapevo già che ogni anno decine di persone, curiose, innamorate, ragazze, esegeti arzigolati e puntigliosi avrebbero fatto un pellegrinaggio all’isola d’Elba per raccogliersi sulla mia tomba. A quindici anni, prima ancora di cominciare a scrivere, conoscevo la celebrità, la ricchezza e la morte.»
L’atto dello scrivere non si trasforma, pertanto, solo in poesia, in eterna creazione ma acquista attivo vigore anche nei ricordi dei trascorsi di infanzia e gioventù: «Ci sono cose che hanno un senso al passato e le cose che hanno un senso al presente, anche se coincidono approssimativamente nel tempo». Intimistiche e consolatorie emergono così le immagini dell’amato Jules, dell’amico di infanzia Raimondo con la sua moto rossa, dell’infermiera Claudette e dell’adorata prozia Suzanne (già presente in precedenti romanzi) la cui vecchiaia diventa, per esteso, l’espressione di una vita comune, di una sofferenza solidale, di una perfetta simbiosi. Proprio a lei Guibert dedica alcune delle pagine più belle del romanzo; proprio con lei più volte si identifica attraverso l’uso di un “siamo” che accomuna entrambi; a lei ancora riserva le pagine finali dell’opera e le immagini visive di un film preannunciato:
«L’Aids […] mi fa assomigliare a Suzanne che ha novantacinque anni, come se lei mi avesse fatto una fattura perché noi continuassimo ad amarci nonostante i nostri sessant’anni di differenza, e nonostante il naturale scollamento dell’amicizia causato dall’impotenza e i vuoti cerebrali. Ora possiamo di nuovo capirci e comunicare. Siamo quasi simili nel corpo e nei pensieri con l’esperienza della vecchiaia. Siamo finalmente diventati marito e moglie.»
Dopo che la scrittura ha potuto ridare forza rigeneratrice, a Guibert non resta che vivere. E la seconda parte del romanzo è caratterizzata da toni più accessi, da spazi e luoghi lontani che non sono più quelli claustrofobici delle sale ospedaliere. Molte pagine vengono riservate alla narrazione, non più marcatamente diaristica sebbene sempre in prima persona, di un viaggio della speranza (così lo chiameremo oggi) a Casablanca. E’ lì che Guibert si reca, dopo avere letto una delle numerosissime lettere degli ammiratori (a cui il romanzo è peraltro dedicato), a far visita al “Tunisino” i cui poteri si sforzano di garantirgli la guarigione.
Guibert non guarirà mai, così ha voluto il suo destino, ma di lui ci rimangono quelle immagini che la sua stessa macchina da presa ci ha lasciato e con le quali si conclude il romanzo.