My Son, My Son, What Have Ye Done
(My Son, My Son, What Have Ye Done)
Werner Herzog, 2009 (USA, Germania), 91'
uscita italiana: 10 settembre 2010
voto su C.C.
Brad (Michael Shannon) si barrica nella sua villetta per fuggire alla polizia che vuole interrogarlo riguardo l'omicidio della madre (una bravissima Grace Zabriskie), del quale è il principale sospettato, affermando di avere con sé due ostaggi. Sulla scena arrivano il detective Havenhurst (Willem Dafoe) e il novizio Vargas (Michael Peña) che attraverso le testimonianze della fidanzata e di un amico del “sequestratore” (Chloë Sevigny e Udo Kier) provano a ricostruire l'accaduto.
Il sodalizio nato tra David Lynch (fiero produttore) e Werner Herzog (alla regia) poteva suscitare qualche perplessità in più d'uno tra i cinefili che hanno bisogno di stringere sempre tra le proprie mani, come fossero una indispensabile coperta di Linus, il raziocinio e il verosimile; eppure, malgrado le premesse, My Son, My Son, What Have Ye Done è un film piuttosto lineare, nel quale più che l'astrusa trovata stilistica (un barattolo di carne in scatola che rotola in modo inquietante, fenicotteri rosa e struzzi che dominano la scena, l'immancabile nano che trova l'occasione giusta per fare capolino, la madre matrona dalle fattezze inequivocabilmente lynchiane) si tenta di rimettere insieme i pezzi di un puzzle surrealista: tutti i flashback che costituiscono la narrazione sono disordinate istantanee del passato recente dei protagonisti e raramente risultano in semplice esercizio di stile non propriamente legato allo sviluppo della storia – come l'episodio della palla da basket, lasciata da Brad su un albero in vista di un futuribile arrivo di qualche bambino dallo spiccato talento, che si staglia in controluce su una poetica San Diego fotografata all'imbrunire. Partendo da un episodio di cronaca nera realmente accaduto, Herzog (anche co-autore dello script, insieme ad Herbert Goldberg) caratterizza con efficacia il protagonista, che tutti considerano “instabile” per i comportamenti eccentrici e per la fede cieca che dimostra nei confronti di quella che chiama la sua “voce interiore”, la stessa voce che qualche mese prima, quando tutto è iniziato, gli ha salvato la vita in una giungla peruviana. Da quel momento Brad ha cominciato a parlare con Dio (che è quel patriota ritratto sul barattolo di carne in scatola) e soprattutto ad interrogarsi sul morboso rapporto che lo lega alla madre iper-protettiva, trovando risposte solo in una tragedia di Sofocle della quale proprio in quei giorni sta interpretando a teatro uno dei protagonisti. Così la vita finisce inevitabilmente con l'ispirarsi all'arte e l'unica conclusione degna diventa proprio quell'ultima frase che, col solito inumano contegno, la madre gli sussurrerà prima di spirare. La recitazione degli attori, insieme alla minacciosa colonna sonora, contribuisce a conferire al film un ritmo ipnotico: un sogno collettivo dal quale si viene risvegliati solo al termine di questa inedita “hostage crisis”; ma in tutta la sua (a tratti) superflua ricerca dell'originalità, Herzog finisce paradossalmente col divenire quasi banale. Immobile.