6 aprile 2013 Lascia un commento
(recensione completa qui)
Gentile professor Mermelstein, desidero congratularmi con lei dello splendido libro.
In certe cose, lei mi ha battuto in volata, lo sa?, e io mi sono sentito di peste – per ventiquattro ore l’ho addirittura odiata, per aver reso superfluo gran parte del mio lavoro (Wallace e Darwin).
Tuttavia, so bene quanta fatica e quanta pazienza siano state necessarie per un lavoro simile – un così grosso lavoro di scavo, di intuizione, di sintesi: e sono tutto ammirazione. Quando lei sarà pronto a pubblicare un’edizione riveduta – o forse un secondo volume – mi farebbe grande piacere discutere con lei alcune di queste questioni.
Vi sono parti del mio progettato libro su cui non tornerò più.
Di tale materiale, può servirsi come vuole. Nel mio volume precedente (al quale lei è stato così gentile di far riferimento) ho dedicato una sezione al Paradiso e all’Inferno nel Romanticismo apocalittico.
Posso magari non averlo fatto in modo di suo gradimento, ma lei non doveva saltare quella sezione a piè pari.
Dia anche un’occhiata alla monografia di quel bruto ciccione azzimato di Egbert Shapiro, "Da Lutero a Lenin, Storia della psicologia rivoluzionaria".
Con quelle guance grasse sembra Gibbon, spaccato.
È un’opera che vale. Io sono rimasto molto colpito dalla parte intitolata "Millenarismo e paranoia".
Non bisogna ignorare che i moderni sistemi di potere presentano effettivamente molte somiglianze con questa psicosi. Un libro raccapricciante e folle, su questo argomento, è stato scritto da un certo Banowitch.
Piuttosto inumano, e pieno di orrende ipotesi paranoiche, tipo che le folle sono fondamentalmente cannibalistiche, che la gente che sta in piedi terrorizza subdolamente quella che sta seduta, che il sorriso a denti scoperti è l’arma della fame, che il tiranno va matto per la vista, intorno a lui, di cadaveri (possibilmente commestibili?).
Sembra verissimo che la produzione di cadaveri sia stata il risultato più drammatico ottenuto dai dittatori moderni e dai loro seguaci (Hitler, Stalin, ecc..).
Solo per vedere – Herzog faceva quest’esperimento, per vedere come andava – se in Mermelstein non fosse rimasta qualche traccia del vecchio stalinismo. Ma questo Shapiro è un po’ eccentrico, ed io glielo segnalo come un caso estremo. Di quanto ci piacciano, a tutti noi, i casi estremi e le apocalissi, gli incendi, gli affogamenti, gli strangolamenti, e tutto il resto. Più le nostre brave, miti, fondamentalmente etiche classi medie crescono, e più aumenta la richiesta di eccitazioni a fondo. L’aderenza moderata o pacata alla verità, o l’accuratezza, sembrano non avere più alcuna presa. Ed è invece proprio quello che ci servirebbe di più, adesso! («Quando un cane s’affoga, gli offri una tazza d’acqua» diceva papà, amaramente.) In tutti i casi, se lei si fosse letto quel mio capitolo sull’apocalisse e il Romanticismo avrebbe guardato con meno esitazione a quel russo che lei ammira tanto – Ivolsky? L’uomo che vide le anime delle monadi come le legioni dei dannati, solo atomizzate e polverizzate, una tempesta di polvere nell’Inferno; e che avverte che è Lucifero che deve mettersi alla testa del genere umano collettivizzato, svuotato di carattere spirituale e di autentica personalità. Non nego che ciò abbia un certo senso, qua e là, sebbene seriamente mi preoccupi il fatto che idee del genere, per via di quell’ombra di suggestiva verità in essa contenuta, ci facciano ripiombare ancora nelle vecchie asfissianti chiese e sinagoghe.
Mi hanno un po’ infastidito certi imprestiti o citazioni che mi sono parsi pirateschi o il servirsi di serie e meditate opinioni di altri scrittori come di pure e semplici metafore.
Ma mi è piaciuta, ad esempio, la parte intitolata "Interpretazioni della sofferenza", e anche quella che ha per titolo "Verso una teoria della noia".
Sono ottimi contributi alla ricerca. Ma ho poi pensato che il modo con cui le tratta Kierkegaard è alquanto frivolo. Direi, se permette, che per Kierkegaard la verità ha perduto la propria forza su di noi, e che dolore orribile e male debbono insegnarcela di nuovo, che gli eterni castighi dell’Inferno dovranno riacquistare la loro realtà, prima che l’umanità torni seria.
E su questo io non sono d’accordo. A parte il fatto che idee del genere in bocca di gente che se ne sta comoda e a giocare alle crisi, all’alienazione, all’apocalisse e alla disperazione, mi fanno venire la nausea.
Leviamoci dalla testa che questa sia un’epoca condannata, che stiamo aspettando la fine, e tutto il resto, mere cretinate da riviste alla moda. Ci sono già abbastanza ragioni per aver paura, senza questi giochetti del brivido. Spaventarsi a vicenda è un cattivo genere di esercizio etico. Ma per venire al punto principale, la difesa e la lode della sofferenza ci conducono nella direzione sbagliata e chi tra noi è rimasto fedele alla civiltà non deve cascarci.
Si deve avere la forza di impiegarlo il dolore, di pentirsi, di esserne illuminati, se ne deve avere la possibilità, e il tempo. Per i religiosi, l’amore della sofferenza è una forma di gratitudine verso l’esperienza o una opportunità di sperimentare il male e mutarlo in bene. Essi credono che il ciclo spirituale possa essere completato nel corso dell’esistenza di un uomo, che in qualche modo metterà a frutto la propria sofferenza, non foss’altro negli ultimi momenti della sua vita, allorché la misericordia di Dio la ricompenserà con una visione della verità, ed egli morirà trasfigurato. Ma questo è un esercizio speciale. Più comunemente la sofferenza spezza la gente, la schiaccia, e si limita ad essere non illuminante. Lei vede in che modo raccapricciante gli esseri umani vengono distrutti dal dolore, quando hanno in più anche il tormento di aver perduto prima la loro umanità, di modo che la morte è una sconfitta totale, ma poi scrive di "moderne forme d’orfismo" e di "persone che non hanno paura di soffrire" e ci butta dentro altre espressioni da cocktail-party. E perché non dire piuttosto che le persone di potente immaginazione, inclini a sognare sublimemente e a costruirsi magnifiche finzioni autosufficienti, a volte si volgono alla sofferenza per interrompere bruscamente la loro beatitudine, così come fanno quelli che si pizzicano per vedere se sono svegli. Io so che la mia sofferenza, se posso parlare, è stata spesso di questo tipo, una forma più estesa di vita, uno sforzo per raggiungere una vera "attenzione" e un antidoto all’illusione, e di conseguenza non posso ricevere alcun credito morale. Sono disposto, senza ulteriore esercizio nel dolore, ad aprire il mio cuore.
E ciò non ha bisogno di alcuna dottrina e teologia del dolore. Noi amiamo troppo le apocalissi, e le etiche della crisi e il florido estremismo con il suo linguaggio elettrizzante. Mi scusi, no. Di mostruosità ne ho avute finché ho voluto. Siamo arrivati a un’età nella storia del genere umano in cui possiamo chiedere, a proposito di certe persone: «Che cos’è questa Cosa?». Ne ho abbastanza di questa roba – basta, basta! lo sono semplicemente un essere umano, più o meno. Sono persino disposto a lasciare il più o il meno nelle sue mani.
Prenda lei una decisione su di me. C’è portato, lei, per le metafore. Il suo lavoro, per altri versi ammirevole, ne è appunto deturpato. Sono certo che saprebbe trovare una metafora bellissima anche per me. Ma non si dimentichi di dire che non m’azzarderò mai a dare un’interpretazione della sofferenza per nessuno o invocherò l’Inferno per renderci seri e veri. Penso addirittura che la percezione umana del dolore sia diventata troppo raffinata.
Ma questa è un’altra cosa e merita un lungo discorso.