In questo 20esimo Double Bill rivolgiamo l’attenzione a uno degli attori più sottovalutati degli anni Settanta, James Caan. Per introdurlo in questa rubrica, la scelta è caduta però su due pellicole che stanno al limite, temporalmente parlando, del decennio, Hide in Plain Sight (1980) e Thief (1981).
Alla fine degli anni Settanta, Caan, nonostante un’incredibile serie di ruoli di successo rifiutati (tra cui Apocalypse Now, Superman, Star Wars, One flew over the Cuckoo’s Nest, Close Encounters of the 3rd Kind, Kramer vs. Kramer) ha ancora un certo peso a Hollywood e abbastanza trazione al botteghino da farsi produrre dalla MGM, il suo unico film come regista, Hide in Plain Sight (da noi Li troverò ad ogni costo), che lo vede anche protagonista.
Basato su fatti reali, raccontati in un libro di Leslie Waller, la pellicola è incentrata su Thomas Hacklin (Caan), che un bel giorno passa dalla sua ex-moglie per visitare i figli e trova la casa abbandonata. Spariti nel nulla. Disperato, Hacklin si rivolge alla polizia e altre autorità, ma tutti si rifiutano di aiutarlo o fanno finta di non sapere. Dopo qualche tempo però viene a sapere che la sua famiglia è stata inserita nel programma di protezione testimone, a causa del marito della moglie. Con il supporto della sua nuova donna (Jill Eikenberry) e l’aiuto di un avvocato (Danny Aiello), Hacklin è deciso di ritrovare i suoi figli, ad ogni costo.
Hide in Plain Sight (realizzato tra Comes a Horseman e Chapter Two) non è esente da difetti, ma nell’insieme rappresenta una bella prova per Caan, sia di fronte sia dietro alla cinepresa (probabilmente grazie anche all’aiuto del direttore della fotografia, Paul Lohmann, i due avevano lavorato insieme già in Silent Movie di Mel Brooks).
Il risultato è un dramma misurato, che si prende tutto il tempo necessario, profondamente caratterizzato dall’ambiente blue-collar di Buffalo, NY. Caan, a volte inciampa un po’ troppo nella narrativa (non è sempre chiaro in che lasso di tempo si svolgono gli eventi; nella realtà furono 8 anni che si conclusero di fronte alla corte suprema), ma quello che gli interessa veramente, il singolo individuo, ordinario, spinto ai suoi limiti da un sistema impersonale e istituzioni arbitrarie, viene raccontato in maniera decisamente riuscita. La rinuncia alla spettacolarizzazione degli eventi, chiaramente voluta, sottolinea l’approccio da cinema vérité (per poi però inserire una scena decisamente cinematografica nel finale e mai verificatasi nella realtà). La struttura, quasi episodica, invece frena ulteriormente la tensione e qui una mano più esperta avrebbe potuto fare qualcosa di più, anche se la forza emotiva non ne risente troppo.
Hide in Plain Sight è un film solido e soprattutto onesto, che merita un recupero.
Thief (in origine intitolato Violent Street, è infatti uscito da noi come Strade violente) è il debutto cinematografico di Michael Mann, dopo il successo del film televisivo The Jericho Mile. Tratto dal romanzo The Home Invaders: Confessions of a Cat Burglar di John Seybold (il vero Frank Hohimer), Mann con l’aiuto di un gruppo di “consulenti tecnici” (in altre parole, una delle crew di ladri più “quotate” dell’epoca, alcuni dei quali compaiono anche in ruoli minori) prepara il film nei minimi dettagli, puntando – come sua abitudine – sul realismo e l’autenticità, in questo caso della rappresentazione dell’atto criminale.
Frank (James Caan), scassinatore professionista, segue regole e un suo codice morale ben preciso. Dopo essersi fatto 11 anni di prigione, si è costruito una vita tranquilla e confortevole. Con il ricavato di pochi, ma profittevoli colpi, ha acquistato un bar e un autosalone. Frank però, ha già perso fin troppo tempo e non può perderne altro. Vuole una moglie e dei bambini. C’è in lui un’urgenza interiore (che non a caso ricorda quella di Dustin Hoffman in Straight Time, sceneggiato sempre da Mann), che non permette altri rinvii, soprattutto dopo la morte del suo mentore e figura paterna, Okla (un bravissimo Wille Nelson, presente purtroppo solo in due scene). Per un breve momento sembra avere tutto, la vita perfetta, ma è solo un attimo fugace (non per niente i due momenti più pacifici del film sono ambientati al mare o comunque vicino all’acqua, elemento ricorrente nel cinema di Mann). Si mette insieme alla cassiera Jessie (Tuesday Weld) e nonostante qualche problema con gli sbirri (che sono incazzati con lui, visto che non gli passa mazzette), tutto sembra filare liscio. Poi però fa il proverbiale patto con il diavolo. Frank ha sempre lavorato in maniera indipendente, affidandosi all’aiuto di pochi amici/colleghi, tra cui il giovane Barry (James Belushi alla sua prima apparizione sul grande schermo). Quando si mette in affari con Leo (Robert Prosky, che è anche nel cast del successivo The Keep), uno dei maggiori gangster di Chicago, quest’ultimo gli offre tutto, ma il prezzo sarà altissimo. Dopo il colpo della vita, quello che dovrebbe permettere di chiudere la carriera criminale, va tutto a puttane. Prima, Leo cerca di fregarlo su la sua parte del bottino, poi uccide il suo amico Barry. A questo punto, in Frank si attiva un meccanismo di auto protezione distruttivo, separarsi da tutto. Manda via Jessie con il bambino, fa esplodere la casa e il bar, infine da fuoco al negozio. Poi si dirige verso la casa di Leo…
Con Thief, Mann mette in scena la costruzione e decostruzione, anzi distruzione, di un individuo e della sua intera esistenza, fino a riportarlo quasi allo stato animale. Non si sa quale sia il futuro di Frank, avvolto dal buio notturno della scena finale, ma sicuramente ha perso tutto quello che aveva. Caan, che si era preparato mesi in anticipo per il ruolo, offre una delle migliori interpretazioni della sua carriera, con una caratterizzazione del personaggio al limite del nichilistico. Frank è un uomo che in 11 anni di prigione ha imparato a staccarsi emotivamente da qualsiasi cosa e persona. L’attitudine mentale, la capacità di fregarsene degli altri, di se stessi, di tutto, sono meccanismi che gli hanno permesso di sopravvivere. Se non ti importa niente di nulla e di nessuno, non si può perdere.
“I am the last guy in the world, that you wanna fuck with.”
Thief è un neo-noir che indica la via al cinema anni Ottanta, ma con un piede ancora saldamente ancorato nel decennio precedente, partendo dal suo protagonista. Mann però, come sempre, usa il genere, per poi andare oltre.
Il film potrebbe essere benissimo ambientato nello stesso “universo” di Heat (1995), tante sono le somiglianze, limitandosi qui però solo all’ambiente criminale. Inoltre rispetto al capolavoro di Mann, la trama viene sviluppata quasi esclusivamente tramite i personaggi.
Non a caso, la scena centrale ed emotivamente più forte del film è un dialogo in un diner tra Frank e Jessie, che anticipa quello leggendario tra De Niro e Pacino. Ancora oggi, il regista la considera tra le scene migliori da lui mai realizzate.
Oltre alla scena appena citata, si ricordano la bellissima sequenza iniziale, la rapina principale e ovviamente lo showdown, che include anche una virgolettata tecnica (“the quick change”), di quelle che solo i grandi sono in grado di inventarsi. D’importanza centrale è anche la colonna sonora dei Tangerine Dream, tra la migliori prodotte della formazione tedesca. Curiosamente Confrontation, il pezzo più bello, che accompagna le scene finali, è stata composta da Craig Safan.
Thief è un film importantissimo nella carriera del regista, per tematiche e tecnica (in primis la fotografia), che – a parere di chi scrive – rimane tra le sue pellicole migliori. Nicolas Winding Refn lo deve amare molto, visto che, insieme a Driver di Walter Hill, ha chiaramente fornito il blueprint per il suo bellissimo Drive (2011). Una visione fondamentale.
Chiudiamo con due piccole curiosità.
Thief vede le prime apparizioni in assoluto dei manniani, Dennis Farina (all’epoca ancora in servizio attivo) e John Santucci (uno dei “consulenti tecnici”, all’epoca fresco di galera). I due sarebbero riapparsi insieme nella serie televisiva Crime Story (1986), sempre ideata da Mann. Per un momento si può vedere anche William Petersen, protagonista poi di Manhunter (1986).
A Chicago, nello stesso periodo delle riprese, John Landis stava girando il suo capolavoro, Blues Brothers e John Belushi – a detta di Mann (nell’interessante commento audio del DVD R1) – si faceva vedere sul suo set di frequente, per supportare il fratello. Il regista in cambio passava parecchie notti al Blues Bar, il club privato di Dan Aykroyd e Belushi.
Paolo Gilli
Questo Double Bill è per Lucia.