A primissima vista questo titolo così lungo condivide con il film precedente una sorta di allitterazione lessicale, uno scioglilingua che dichiara seduta stante la propria cifra ludica. Inoltre è l’estetica ad avvicinare le due opere scolpite in una nuova forma di stop-motion che porta in trionfo la cura del particolare, la quale a sua volta obbliga a soffermarsi, o a ripassare, su ogni singolo tassello del mosaico perché solo così si potranno cogliere le sfiziose sottigliezze. Lavorando su una pietra non contrassegnata dalla loro paternità, ai registi viene un po’ meno la riuscita concettuale del corto che lascia tra le pieghe del narrato un che di inespresso, di leggermente incompleto. Si fa sentire la mancanza di una concatenazione che legittimi il collegamento tra lo scopo (diventare la “prima donna” del teatro) e il mezzo (fare da balia ad un bebè molto particolare). Se il discorso del teatro=rappresentazione era un obiettivo da raggiungere, d’altronde ciò che Jennie fa è una esperienza di vita ma allo stesso tempo un provino per entrare nello Spettacolo, l’impressione è che ci si sia fermati qualche metro prima senza avere il coraggio di infilarsi nelle fertili fenditure metafilmiche, ammesso che ciò fosse davvero un cruccio dei due animatori e ancor più ammesso che per un “cartone” di neanche mezz’ora sia necessario rintracciare una qualsivoglia firma autoriale per farselo piacere.
E difatti aldilà di congetture barbose e insipide come quelle soprastanti, il film è pur sempre un tonificante per la vista, e a questo punto da Lavis e Szczerbowski è doveroso attendersi un passo avanti: l’ora del lungometraggio è quasi scoccata, magari sempre sotto l’egida di Jonze, magari partendo da un soggetto tutta farina del loro sacco.