«Voi che sarete emersi dai gorghi / dove fummo travolti / pensate quando parlate delle nostre debolezze / anche ai tempi bui / cui voi siete scampati . // Andammo noi, più spesso cambiando paese che scarpe, / attraverso le guerre di classe, disperati / quando solo ingiustizia c’era, e nessuna rivolta. // Eppure lo sappiamo / anche l’odio contro la bassezza / stravolge il viso. / Anche l’ira per l’ingiustizia / fa roca la voce. Oh, noi / che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza, / noi non si poté essere gentili. // Ma voi, quando sarà venuta l’ora / che all’uomo un aiuto sia l’uomo, / pensate a noi / con indulgenza» (Bertolt Brecht)
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di Giuseppe Panella
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Histoire d’une vie. Fiorenza Alderighi racconta e si racconta
1. Il racconto in prosa : la guerra, la morte, la pace
Da molto tempo ormai, Fiorenza Alderighi trasforma periodicamente la sua vita in una serie di racconti di vita e poi li rilancia in una prospettiva poetica di trasfigurazione necessaria.
In La guerra degli uomini (che si situa in contrapposizione, in tutta evidenza, a quella che la sua autrice considera evidentemente “la pace delle donne”), la sua narrazione affonda le proprie radici in vicende intime di famiglia che rendono struggente e dolorosa anche se sicuramente più vicina alla sensibilità di ognuno dei suoi lettori la modalità del racconto diretto.
Fiorenza Alderighi affida al suo istinto di narratrice e alla memoria di un passato sovente già remoto l’onda d’urto dei suoi ricordi e l’empito forte della sua passione umana e civile.
La storia della sua famiglia, delle sue numerose zie e delle loro alterne vicende, l’incrociarsi del passato e del presente in un alternarsi di prospettive di vita vissuta e di esigenze affettive costituisce la sostanza poetica di questo suo nuovo libro e della sua prospettiva di scrittura.
Le vicende della Seconda Guerra Mondiale che hanno insanguinato la Toscana e l’Italia intera risultano vivide in queste pagine così come il racconto della violenza dei fascisti e dei loro complici su una popolazione spesso inerme e indifesa anche se sempre indomita e battagliera.
Le zie di Fiorenza, soprattutto, campeggiano nelle sue pagine attonite e rigogliose di ricordi.
Zia Maria, ad esempio, “alta, snella, volto gotico, aristocratico come una Madonna del Costetti e gli occhi a mandorla grigio-verdi che raramente ho visto allegri” e che viveva rivestendo di paglia i fiaschi per il vino e per l’olio (come si faceva una volta).
Oppure zia Dina, la più giovane delle molte figlie del nonno Giuseppe e della nonna Virginia, una ragazza “diversa dagli altri, era la più bella con quei capelli lisci e lucidi di un castano dorato e gli occhi come due mandorle fresche. Un incanto. La sua voce era particolare, da contralto, robusta e squillante che avrebbe fatto impazzire un maestro di musica”.
Dina era fidanzata con Luigi (un giovane di “corporatura robusta, un ciuffo di capelli morbidi sulla fronte spaziosa”) e, durante una sera dell’adolescenza di Fiorenza, la ragazzina ricorda di averli visti parlare insieme a casa (ma questo le accadde una volta sola) ed evidentemente la scena deve esserlesi impressa nella memoria proprio per questo motivo. Luigi sposò Dina ed ebbero un figlio solo, Renzo, rimasto presto orfano perché l’uomo partì per il fronte russo e non ritornò mai dalla ritirata dopo la sconfitta del contingente militare italo-tedesco. Dina non si risposò più in seguito e visse poi sempre in attesa dell’impossibile ritorno dell’unico uomo che avesse mai amato.
Anche zia Nella è un personaggio che si imprime nella mente e nel cuore : “Non era molto alta, aveva l’altezza giusta, arrivava al cuore. Aveva un corpo armonioso e un volto dove l’Altissimo si era compiaciuto di elargire grazie. Nella sua esistenza che avrebbe potuto essere più lunga se non ci fosse stata la negligenza e le cure sbagliate di un dottore presuntuoso e ignorante, la sua bellezza era rimasta quasi intatta e, per dirla come De Andrè, l’inverno non cadde mai sul suo viso”.
Sposata ad Armando, un contadino dalle vaste conoscenze bibliche (sarà lui a raccontare alla piccola nipotina Fiorenza delle vicissitudini del “lavoro di Giobbe”), zia Nella durante la guerra era riuscita, con uno scatto fortunato di reni, a salvare la ragazzina da una scarica di proiettili che era stata tirata a caso da un aereo su un muricciolo a secco alla quale era seduta vicina ad ascoltarla.
Anche questo episodio risalta nell’insieme degli aneddoti autobiografici da cui Le guerre degli uomini risulta composta come un puzzle di memorie e di sogni, di desideri consapevoli e inconsapevoli, di squarci di vita e di riflessioni sulla ferocia degli esseri umani.
E’ un mondo quasi tutto composto di donne quello che la Alderighi ricompone sulla pagina contrapponendolo a quello che all’epoca le risultava ancora un po’ misterioso degli esseri di sesso maschile ma di femmine intelligenti, forti e lavoratrici, capaci di reagire alla sfortuna e alla morte improvvisa dei loro cari, dedite al culto del loro uomo e della famiglia e che vengono descritte con tutte le loro caratteristiche migliori e soprattutto con la loro grande dignità (anche perché nella memoria del passato dell’infanzia e dell’adolescenza si tende a selezionare ciò che ha colpito di più la propria mente e ciò che è più sgradevole scompare nell’abisso dell’inconscio, nel tentativo di dimenticarlo per sempre – anche se quasi mai questo accade).
Sono storie di vita vissuta, ambientate quasi tutte in un ambiente contadino sereno e disperato insieme, dove la vita trascorre nella necessità di procurarsi da vivere ma dove, tuttavia, non mancano quegli sprazzi di felicità che la rendono occasione di rimpianto e di disperata vitalità.
La fame patita durante il conflitto resta uno dei ricordi più angoscianti di quel periodo spaventoso in cui trovare da mangiare era estremamente difficile anche in campagna e in cui il pane era diventato un cibo difficile da procurarsi. Per la sua sorellina Laura che non poteva mangiare carne, prosciutto o pesce per una sua disfunzione alimentare, il pane era indispensabile e una volta in cui ce n’era carenza per lei Fiorenza cedette la sua razione in cambio di un uovo al tegamino che, da allora, è diventato uno dei suoi cibi prediletti anche in epoca odierna.
I bombardamenti come quello che distrusse Empoli il 26 dicembre del 1943 sono anch’essi indelebilmente fissati nella memoria della piccola Fiorenza e la paura di morire sotto le macerie che aveva contraddistinto quei momenti di spaventosa distruzione trascorrono in alcune delle pagine più felicemente descrittive del libro.
Ma anche la pace, tuttavia, può essere dura quanto e forse più della guerra e della sua tragedia : ricominciare daccapo è sempre difficile e spesso è impresa disperata e conseguenzialmente tragica quanto quella di sopravvivere durante gli eventi bellici.
Tra pace e guerra, infatti, non c’è stato tuttavia un vero passaggio significativo, una dimensione che restituisse la serenità e la pace a chi era sopravvissuto : “ Poi si riaprirono le banche, le scuole, i negozi e da allora la guerra fu solo fredda. Certo. Ma la mia infanzia, la mia adolescenza, il mio divino diritto di esistere in ambiente sereno, il sorriso che è stato tolto per anni ai miei genitori, i miei compagni di gioco uccisi, chi me li rende ?”.
2. La poesia : l’appello a “coloro che verranno”
Ma non c’è solo la guerra, la morte dei propri cari, la fame e il dolore
Fiorenza concepisce la poesia essenzialmente sotto due forme : l’appello lirico (in particolare ai suoi contemporanei in nome di “coloro che verranno”) o la rievocazione egualmente e altrettanto lirica di episodi del passato (riprendendo in particolare molte delle figure cui ha dedicato le sue accorate pagine in prosa). Particolarmente significative appaiono, quindi, le pagine in cui le figure delle zie (centrali nel progetto del suo libro anche per quanto riguarda la prosa) vengono ricostruite nella dimensione della poesia e dell’evocazione di episodi centrali della loro vita. Molto significativa è la narrazione in versi della storia della zia Dina priva dello sposo disperso nella steppa russa, gelida e impassibile, durante la marcia del davai degli uomini di ritorno a casa :
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“Dina. Quando bussa sui vetri la sera / avvolta di silenzio / sopra passeri e fiori addormentati / accendo la tremula lanterna / e varco la soglia del mondo / verso il mio abisso. // Avete visto il mio amore / dov’è il mio amore, ditemi / gelide stelle voi l’avete visto / e anche voi petali di ghiaccio. / Portami la sua voce tramontana / ho intessuto un mantello / per riscaldarci il cuore / rosso come papaveri nel grano / dell’estate nostra. / Ritorna amore mo / ritorna amore”.
Forse è l’elegia la misura più autentica della scrittura di Fiorenza Alderighi, la capacità di evocazione di una passione (anche se pur sempre ardente e ancora molto forte pur se ricondotto a un atteggiamento pacato e ricomposto della mente) che vive nel tempo e nel tempo si ricompone e ritorna in ogni epoca della vita. Anche il ricordo di zia Nella accende la mente lirica della scrittrice di Empoli e gli detta accenti di spossata liricità amorosa :
“E’ rosso il sole sulla marmellata / spalmata sul pane scuro / aroma di grano / che la tua mano mi porge / sollievo di lacrime e pene. // Il ricordo di te / come una rosa grande dell’orto / profuma di dolcezza la tua assenza / madre, madre mia, madre di tutti. // Piange il salice / vicino al vecchio pozzo. / Sono le lacrime di chi ti ha perduta”.
Le zie paterne rappresentano l’aggancio più significativo con il passato, con i momenti autentici di una formazione alla vita che è avvenuta in anni terribili e mortali in cui la vita umana valeva poco (il nonno Giuseppe ucciso dai fascisti e rimasto senza giustizia, gli zii giovani morti in guerra o mai più ritornati da luoghi freddi e lontani dove non c’era neppure la possibilità di sapere che cosa era accaduto dei loro corpi defunti) ma che, tuttavia, proprio per questo, sono stati più significativi di un’infanzia trascorsa senza difficoltà morali e materiali e passata tutta in un ambiente sereno e soddisfatto di ciò che era e che sarebbe sempre stato. Il dolore è stata una scuola severa per l’autrice che, infatti, ne redige un catalogo onesto e senza retorica :
“Il dolore. Un grido senza limiti è nascosto / dentro la mia colonna vertebrale / è l’urlo di terrore delle donne / uccise stuprate umiliate / il piano inerme dei bambini / affamati feriti mutilati / il panico degli animali / lo stupore doloroso delle piante. // E’ il dolore infinito che mi abita / l’odio feroce che mi uccide / e mi impedisce il perdono / per sempre. Lo giuro. // Guerra, guerra assassina / balorda feroce e inutile / a tradimento uccidi / uccidi alle spalle. / A tradimento”.
L’odio contro la guerra da sempre contraddistingue la Musa socio-politica di Fiorenza Alderighi (grazie alla quale ha raggiunto alcuni molto ambiti riconoscimenti in Italia).
L’amore della pace rende i suoi versi civili possenti, forti e sostenuti da una rabbia contro la stupidità umana che non conosce eguali. Il dolore è legato indistricabilmente alla consapevolezza che, nonostante i disastri della guerra e la morte che porta con sé come retaggio universale, ci sarà sempre qualcuno che la proporrà come “sola igiene del mondo” o come rimedio a soluzioni politiche complesse e risolvibili solo dall’opera di una diplomazia intelligente e non corrotta.
Il dolore, tuttavia, può trovare rimedio solo nell’amore della vita, nella nascita di una nuova esistenza, ad esempio, che risarcisca e restauri l’ordine naturale delle cose offeso dalla guerra.
E’ il caso della piccola Olivia, la nipotina a lungo attesa, che nascendo riempie di felicità la famiglia di appartenenza e sembra rilanciare l’eterna sfida della vita contro la morte.
A Olivia sono dedicati versi dolcissimi e musicali che sembrano propiziare il nuovo rivelarsi di un sogno di pace e di felicità per un momento storico fin troppo travagliato e dolente in cui la guerra sembra non affliggere più gli uomini ma si rivela sempre sotto altri e spesso più micidiali aspetti (il femminicidio cui la Alderighi dedica un testo di grande e tagliente durezza critico-morale).
Le guerre degli uomini, allora, è il libro di una vita che, descrivendo il passato con accenti forti e scanditi dal ricordo, non cede al languore che è sempre un po’ spento dell’auto-biografia auto-giustificativa ma trova nell’”appello ai posteri” la sua forza e la sua dignità espositiva e poetica.
A “coloro che verranno”, Fiorenza Alderighi lascia così in eredità il senso della propria vita passata.
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