A volte combatto con la possibilità di presentarmi come una fashion blogger. Prima di tutto perchè non penso che il mio lavoro sia definibile solo in questi termini. Secondo perchè in Italia, purtroppo, il termine fashion blogger è accomunato spesso a ragazze che, non capisco come mai, hanno un denominatre comune: i loro blog hanno nomi da nature morte. The Blonde Salad, The Fashion Fruit, The Fashion Coffee, Fashion Toast, e chi più ne ha più ne metta.
Allora penso alla pittura e al valore simbolico degli oggetti inanimati nelle nature morte. Alla fine non si distingono molto da questi blog: una serie di foto scattate ad oggetti, quando non autoreferenziali, ma con la differenza di non avere alcun messaggio da trasmettere. Mi chiedo: quanto conta dare un’opinione personale in risposta a “forse lo comprerò [...] non so se riuscirò a resistere [...] che ne pensate?”. Io, me tapìna,non trovo il valore di un’interazione.
Quello che mi piacerebbe dimostrare è che il fatto che certe “morte” siano molto seguite da un certo target non dà loro il potere di influenzare le opinioni intorno alla moda. Un blogger è in grado di creare interazioni e conversazioni. Quale conversazione si può creare intorno al dubbio se una farà o meno shopping domani? Personalmente non mi interessa. Quello che mi interessa è studiare il movimento delle aziende intorno a questi “fenomeni” di persone. Perchè un’azienda del lusso dovrebbe (anzi, lo fa) svendere proprio quello che considera lusso attraverso questi personaggi? È giusto rendere la moda democratica, ma questo non deve far perdere il vero senso dell’interpretazione. Dietro la forma di una scarpa a volte c’è un mondo. L’insalata, per essere buona, è meglio condirla.
Un'insalata scondita
La frutta fashion
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