Ricordo molto bene che trascrissi, quel giorno, su una parete del circolo una strofa tratta da una famosa canzone del ’68 in cui si parla di compagni e di compagne, di operai e studenti e di “tante facce sorridenti”. Volevo esprimere, con quel gesto, il desiderio di ritornare a sorridere e a vivere intensamente come mi succedeva nel ’68 e fino a tutto il ’76.
ma si trattava soltanto di una pietosa aspirazione e ne avevo piena coscienza. Due mesi e mezzo di menate sul “personale” e di allucinanti enunciazioni sul “riprendiamoci la vita” mi avevano aiutato a ritagliarmi notevoli “spazi di morte”, mi avevano annegato in un mare di ipocrisia e di malafede, pregiudicando irrimediabilmente ogni mia possibilità di recupero(…)
La gente peggiore l’ho conosciuta proprio tra i “personalisti” (cultori del personale) e i cosidetti “creativi” (ri- creativi): un concentrato di individualismo da porcile e di “raffinata” ipocrisia filistea(…)
Debbo purtroppo riconoscere d’aver dato la mia sensibilità in pasto ai cani.