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Ho giocato a nascondino con Chiara Gamberale

Creato il 18 dicembre 2013 da Frailibri

verdeTante volte ho provato a “tanare” Chiara Gamberale, ma ogni volta mi scappava. La prima volta è stata quando alla radio ascoltavo il suo psicoprogramma, ero una degli psicoascoltatori di Io, Chiara e l’Oscuro. La ascoltavo, ma non sono mai riuscita a entrare veramente dentro le parole (tante) di Chiara.
Poi un altro suo titolo mi ha colpito e sembrava che avessi finalmente scoperto il suo nascondiglio. Le luci nelle case degli altri è stato per me un titolo evocativo di una sensazione di malinconia e calore insieme che provavo vedendo dalla strada, mentre andavo in macchina con mia madre, le luci nelle case degli altri. Ma poi la trama (una bambina di sei anni la cui mamma muore in un incidente stradale e) mi aveva respinto, avevo smesso di contare e basta giocare a nascondino.

Qualche mese fa l’hanno “tanata” per me, mostrandomi due dei suoi tanti romanzi: Per dieci minuti (Feltrinelli *I Narratori*, 2013, 187 pagine, 16 euro) e Le luci nelle case degli altri (Mondadori *Scrittori italiani e stranieri*, 2010, 408 pagine, 20 euro). E allora ho scoperto che si nascondeva dietro la tenda del salotto e finalmente l’ho vista bene.
E quello che ho visto diciamo che mi è piaciuto, ma non fino in fondo.
C’è molto della Chiara Gamberale che avevo intuito ascoltandola, leggendo alcuni suoi pezzi quando mi capitava. Devo dire che prima di leggerla mi era meno simpatica e adesso mi è venuta voglia di conoscerla. Ho riconosciuto l’ossessione nei confronti degli uomini (e della loro assenza) che avevo intuito quando alla radio parlava del nichilista: nel primo romanzo la presenza-assenza incombente è quella di un marito che la abbandona ma non spezza mai il filo che li lega; nel secondo è da un lato un padre di cui non è nota l’identità, è noto solo che abiti nel condominio dove vive la protagonista e dall’altro lato è l’uomo – il ragazzo – che se da un lato la salva dalla solitudine, dall’altro le rovina la vita.

Uomini a parte, Per dieci minuti ha una buona idea di fondo, ossia la teoria steineriana per cui ogni giorno la protagonista deve fare, per almeno dieci minuti, qualcosa che non ha mai fatto. E fin qui tutto perfetto, il meccanismo incuriosisce, lo stile è semplice, i capitoli sono brevi e si snoda perfino un piccolo giallo. Come Brizzi nel suo ultimo romanzo, anche lei sottolinea l’importanza di godersi la vita, di superare un trauma (nel suo caso, l’abbandono del marito) facendo di tutto per stare bene. Ogni capitolo definisce un giorno, con tanto di data, alba e tramonto – come negli Almanacchi, che indicano avvenimenti importanti e informazioni sulla giornata – e la preparazione a quei dieci minuti.
Dopo almeno la metà del libro ci si accorge che la lettura scorre veloce, ma lascia in fin dei conti un segno piuttosto labile. Come in alcuni libri di Paulo Coelho, una teoria esauribile in un racconto lungo, viene sciolta in un intero romanzo. t utto scorre, piacevole e leggero, fino alla fine e ti fa pensare che forse sarebbe bene dedicare anche tu a te stessa. Altra cosa del romanzo che rimane impressa (non proprio in maniera positiva) è il fastidio per quel marito (ex) il cui pensiero la ossessiona, e che suona come una litania che dobbiamo ascoltare per far completare alla protagonista il processo di catarsi e la liberazione dal macigno della non accettazione dell’abbandono.

Le luci nelle case degli altri mi è piaciuto decisamente di più. Una partenza col botto, con Mandorla, la bambina protagonista rimasta orfana, al funerale della mamma. Apertura narrativamente molto forte, con lei che alterna la descrizione di ciò che accade con la bambina che ripete sommessamente (e sembra veramente di sentirla e il cuore ti si fa a brandelli) “mamma, mamma mamma”, in quella sequenza di tre termini separati da una virgola dopo il primo, un vezzo stilistico che si ripete n che ho apprezzato nella sua semplicità.
Il romanzo procede poi ibrido. Nella prima metà sembra una – buona – versione beta (anche se scritto molto dopo) di Vita, istruzioni per l’uso di Perec, con la descrizione delle persone che vivono nello stesso condominio, prendendo in considerazione un piano per volta. Interessante il gioco di relazioni, anche stilistiche, fra i condomini visti con gli occhi di Mandorla, costretta (dopo la morte della madre) a vivere, per brevi periodi, in ognuna delle loro case. Anche qui una punta di giallo: Mandorla ha un padre, che la madre (che ricorda tantissimo Micaela Ramazzotti in La prima cosa bella) indica in una lettera (scoperta da Mandorla dopo la sua morte) come uno dei condomini. Colpo di scena e snodo fondamentale. Che però viene portato avanti in maniera piuttosto debole, accessoria, occasionale e poco centrata, come se la notizia incidesse solo in superficie sugli equilibri dei personaggi e delle coppie.
Bello il quadro all’interno delle case: le storie dei singoli personaggi sono ben narrate, ben concepite e destano interesse, catalizzano l’attenzione e creano empatia fra i lettori e i personaggi.
Poi, purtroppo, verso la metà del romanzo, è come se tutti i personaggi scomparissero, portandosi dietro le loro valigie piene di storie e lasciassero il posto a un romanzo adolescenziale, con protagonista una ragazzina alle prese con un amore impossibile, un amore possibile ma contrastato, la solitudine, l’incomprensione e anche peggio. Il romanzo procede quindi come una grande macchia d’olio sull’acqua, che copre tutto il resto e rimane in superficie, senza andare mai veramente in fondo.

Rimane, dopo la lettura, l’affetto per Mandorla, ma ancora di più la comprensione e la simpatia per tutti i personaggi che hanno diviso un pezzo del loro cammino con lei, di cui avrei voluto leggere di più.

Per il prossimo romanzo, desidererei leggere una Gamberale più chick e leggera; quando si scrolla di dosso la sua psicopersonalità è molto, molto piacevole, arguta, divertente e paradossalmente più profonda.



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