La stradina, una specie di mulattiera incastonata tra una casa padronale e il muro a secco del grande vigneto, funge da spartiacque tra la via principale trafficata, esposta spietatamente, e uno snodarsi di vicoli storici del piccolo paese di campagna.
Cammino spedita. Sotto i piedi la terra perennemente umida dell’ombra perpetua del tratturo e l’erba nuova, lucente folta e morbida, che macchia d’acqua le mie scarpe pesanti.
Che novembre è mai questo, con il verde così tenero e il cielo tanto sereno? Cammino spedita perché voglio scoprire che cosa nasconde questa via di fuga improvvisa che, alzando lo sguardo, si è parata davanti ai miei occhi mentre rincaso, invitante come una possibilità e attraente come un miraggio.
Mi dico: Corri. Corri svelta. Gambe scattanti, niente interruzioni. Devo seguire il flusso!
Ecco ci siamo, la stradina è alla sua svolta, ho il fiatone addirittura. Sono arrivata in fondo, non sono sparita nè caduta in una tana di coniglio, svolto adesso, vado e …ah! Il sole.
Questo sole – tanto intenso che ha evidentemente sbagliato stagione – mi si schiaffa in faccia, mi riempie la bocca e scende giù fino in gola, riscaldandomi le guance e la fronte, costringendomi a chiudere gli occhi e cercare un attimo di buio.
Elio e smog. Caldo e metallo. Lo mastico. Lo sento sotto i molari e le otturazioni.
Un lampo di tempo, un niente questo raggio di tepore e torno in ombra ma il gusto rimane.
Un frammento metallico e caldo, incolore. Persino i polmoni si sembrano contrarre per via dell’intrusione inaspettata. Riprendo l’ossigeno che questo sole mi ha rubato. Ho mangiato il sole, penso nell’immediato, e non so se tecnicamente si può fare, ma mi sento purificata.
Lo chiuderei in vasetti.