Una bella e analitica recensione de “La misura del danno” firmata da Lucia Tosi su Il lunedì degli scrittori (qui l’articolo originale)
*
La misura del danno, romanzo di Andrea Pomella edito da Fernandel, 2013, è un libro godibilissimo, rappresentativo del terribile ventennio che abbiamo vissuto e che pare non voler terminare ancora. E’ la storia di un ragazzo romano, del popolo, attraente, che fa fortuna ben presto in tv con le fiction e la pubblicità, sposa giovanissimo una giovane ricca borghese, ha una figlia, è scontento della mediocrità delle sue prestazioni e aspira al cambiamento. Questo arriva e, come se niente fosse, il pubblico che lo osannava come un eroe popolare, con la sua bella faccia da fotoromanzo, lascia il posto ad un pubblico colto più vicino ai gusti e all’educazione della moglie. All’apice del successo, quando sembra aver fatto dimenticare a tutti il suo passato di mediocre attore di filmetti, si incapriccia di una giovanissima fan, amica di sua figlia , che gli fa capire in tutti i modi possibili di avere una cotta per lui. La seduce nella casa al mare dei suoceri: è evidente che non ne verrà nulla di buono, lo sa, ma si consegna al rischio mani e piedi, in preda ad una sorta di desiderio inconscio di autodistruzione o, per lo meno, di quel cambiamento che nemmeno la svolta nella carriera gli aveva veramente fatto provare. Quando crede che tutto sia morto e sepolto, dopo mesi dall’accaduto viene a galla il fattaccio, con le conseguenze catastrofiche che tutti possono immaginare.
Fin qui si potrebbe pensare che la storia, pur emblematica di certi ambienti (quello dello spettacolo e quello medio-alto borghese) sia esigua: e in un certo senso lo è. Quello che però è interessante – o per lo meno ha sorpreso me – è la notevole capacità di Pomella di calibrare gli inevitabili frequenti flash-back con il tessuto più leggero della vicenda centrale. L’uso dell’analessi può risultare depistante rispetto all’azione centrale e stucchevole, eppure molto spesso appare, appunto, irrinunciabile laddove l’intenzione sia quella di rappresentare il personaggio alle prese con una sorta di redde rationem che affonda le radici nei nodi irrisolti del passato. Ma Pomella è riuscito a gestire questo mezzo in modo agile, mostrando, proprio nei lacerti di passato, di avere doti di narratore e di scrittore: il binomio non è propriamente ciò che, come si dice, nasce sotto i cavoli, specie in quest’epoca piuttosto avara persino di buoni narratori.
Ci sono delle belle pagine di scavo del personaggio, scritte bene, asciutte, ma non aride e delle pagine sferzanti su una certa borghesia illuminata che – parere del tutto personale – ha contribuito negli ultimi vent’anni a svuotare il paese di energia e fantasia, persa dietro ai propri riti ipocriti, velleitaria, fintodemocratica, snob e nemmeno, poi, così colta come ama, al contrario, pensarsi. In questo mondo Alessandro Mantovani, questo il nome del protagonista, non si è mai mosso del tutto a proprio agio: un po’ perché ha vergogna della sua provenienza operaia, un po’ perché sarebbe abbastanza puro e discretamente intelligente per aspirare a qualcosa di meglio che non stare, per esempio, al gioco di vecchie fricchettone, bizzarre, artistoidi, annoiate e terribilmente snob che di lui non sanno che farsene, lo tollerano appena.
Per questa spessa coltre di imposture – è un’impostura anche il rapporto con la moglie – forse fa il gesto del tutto imbecille, da cui avrebbe tempi e modi per sottrarsi, che lo rovinerà. Appare, all’inizio, motivato da un capriccio come un qualunque sporco bastardo di cui le cronache sono piene; senza peraltro parteggiare per lui, il personaggio ci viene consegnato alla fine animato da un desiderio che non è propriamente di redenzione, ma, almeno, di tentare una strada meno idiota e falsa di quella della sua precedente vita. E’ un personaggio tragico e insieme grottesco – per lo meno il finale lo è e non lo premia -. I personaggi di contorno sono ben delineati senza troppo dispendio energetico. Bella la figura malinconica e pertinace del padre che ha qualcosa di mitologico, saturnino quasi.
Ho ritrovato in questo libro il piacere di certe pagine di Ian McEwan, autore molto abile nel raccontare storie di normalità in cui irrompe la follia o il gesto insignificante ma catastrofico e allo stesso tempo bravissimo nello scavare la psicologia del maledetto bastardo, senza pietà, senza concessioni. Lo sfondo è ben tratteggiato ed è quello che più di tutto rende conto del titolo dell’epilogo “Questo paese ci morirà tra le braccia” e del titolo stesso del romanzo. A chi chiederemo il risarcimento per il “danno” patito in questi vent’anni?
LUCIA TOSI