Ho scritto una foto

Da Aboutaphoto

M. Wolf, dalla serie Street view, a series of unfortunate events

M. Wolf, dalla serie Stree view, a series of unfortunate events


Oggi faccio un'eccezione a quello che ho dichiarato nel mio primo post e parlo di un fotografo non emergente, anzi molto conosciuto e che a me piace molto: Michael Wolf.
Quando la gente vide questo lavoro esposto al WPP, scattò subito la polemica. “Non c'è tecnica”, “Chiunque poteva farlo”, “È stato ammesso al premio solo perché è famoso” e così via.È vero che in questo lavoro non c'è tecnica fotografica e che è stata premiata l'idea. Facciamo però un passo indietro. Forse le critiche (anche se a volte provenienti da “addetti ai lavori”) erano mosse da chi non conosce bene la storia e il linguaggio di Wolf.Non voglio stare a scrivere la sua biografia, ma lui aveva già dimostrato di conoscere molto bene il mezzo e la lingua fotografici nei suoi servizi. Mi soffermo su 2 esempi.Hong Kong: Front Door/Back Door, del 2005 (ampliato poi in Hong Kong Inside Outside) mostra una città quasi fantasma da quanto sembra irreale, soffocata da palazzi, claustrofobica e ossessiva eppure vuota, assolutamente vuota.

M. Wolf, dalla serie Hong Kong: Front Door/Back Door

M. Wolf, Hong Kong Inside Outside


Guardiamo ora Tokyo Compression (2010): un lavoro simmetrico al precedente. Niente o pochissime “strutture”, solo persone. Tante persone, le une sopra le altre, senza quasi riuscire a respirare, senza un minimo di privacy. Eppure sembrano così sole, sembrano lì da sempre, immobili e perse nei loro pensieri, statiche come palazzi senza finestre.

M. Wolf, dalla serie Tokyo Compression

M. Wolf, dalla serie Tokyo Compression

M. Wolf, dalla serie Tokyo Compression

Credo non ci sia bisogno di spiegare la forza espressiva di questo fotografo, mi sembra evidente. Perché parlo di lui? Perché Wolf è stato il primo artista che mi è venuto in mente quando ho letto questo post nel blog di Benedusi. Lui sostiene che una foto deve avere una storia, una motivazione, un senso per cui è stata scattata; e fin qui siamo tutti d'accordo. Però a un certo punto scrive: “meglio un miliardo di volte un foto brutta ma che racconti qualcosa piuttosto che una fotografia bella che non racconti nulla” e questa frase mi stonava tantissimo ma non riuscivo a mettere bene a fuoco perché. Wolf mi ha aiutata. Per 2 motivi: 1) le foto brutte sono brutte, ma non “brutte” alla Francis Bacon, brutte e basta, senza virgolette e non c'è modo di “difenderle” 2) l'idea è sacrosanto che ci debba essere ma non BASTA. Faccio un esempio: se voglio fare un servizio sul lavoro precario in Italia, posso pensare di fotografare un call center (sancta sanctorum di molti precari). L'idea c'è, ma se vado a fare le foto con una compatta o una reflex che non so usare, molto probabilmente otterrò foto orrende e quindi vedi motivo 1; se invece sono bravina con la reflex e ancora più bravina negli interni, cosa otterrò? Immagini ben realizzate in cui vedo tavoli, sedie, telefoni, fogli. Cosa mi dicono sulla precarietà giovanile italiana? Ben poco. Se la domanda a questo punto è: come si fa a produrre foto che rappresentino la precarietà giovanile italiana? Come ha fatto Michael Wolf a ritrarre la disumanizzazione di una metropoli? Ha pensato a dei soggetti che fossero in grado di comunicare visivamente questo concetto. Non gli è bastato pensare a un luogo e poi cercare di piegare la realtà per farle esprimere qualcosa che in fotografia non può risultare, ha parlato in un linguaggio fotografico, immediatamente comprensibile. Se bastasse l'idea, allora saremmo tutti fotografi, scrittori, pittori, artisti. Poi è vero anche che c'è chi pensa in quel modo e “piazza” le sue “opere” a decine di migliaia di dollari, ma... avete già capito.

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