di Giorgia Farina
con Micaela Ramazzotti, Libero De Rienzo, Elena Sofia Ricci, Thony
Italia, 2015
genere, commedia
durata, 90'
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A predisporci favorevolmente, sia ben chiaro, non è lo sguardo d'ambiente ne la ricerca di quella verosimiglianza che permetteva ai cineasti del passato di arrivare alla verità dei fatti o per lo meno alla loro interpretazione, bensì il contrario. Infatti, nel raccontare la sua storia e l'umanità che la compone, la Farina adotta una lente deformante che allontana il film da qualunque intento di realismo, collocandolo piuttosto dalle parti di certa commedia nera che in Italia si vede di rado e che, per esempio, nel caso di Pappi Corsicato, uno dei pochi a praticarla (Il volto di un'altra), finisce il più delle volta per non essere capita. In "Ho ucciso Napoleone", sia nel bene che nel male è il personaggio di Anita (Micaela Ramazzotti) a farla da padrone, con la vendetta nei confronti dell'uomo che l'ha messa in cinta e fatta licenziare, utilizzata dalla regista per innescare il giro di vite che coinvolgerà Biago (Libero De Rienzo), timido avvocato segretamente innamorato di lei e per questo disposto ad aiutarla e il gruppo di squinternate amiche, altrettanto sintonizzate sui propositi dell'aggressiva erinni. Ed è proprio il punto di vista di Anita, con le sue ossessioni riconducibili a un trauma infantile e con il suo stile di vita eccentrico e stravagante, a costituire il termometro di una vicenda insieme tragica e bizzarra, che deve la sua credibilità alla fusione dei registri messi in campo (comico, drammatico e surreale) e dei generi utilizzati (la commedia con venature thriller e noir); tutti, nessuno escluso, chiamati a fare da specchio alla schizofrenia caratteriale della fredda e anaffettiva Anita così come al servilismo incondizionato del tenero Biagio. Una coerenza narrativa che la Farina persegue anche sul piano estetico visuale, costruito su analogie cromatiche che vedono il colore rosso ritornare continuamente negli accessori (la vernice che macchia il vestito di Anita e che poi diventa una striatura dei suoi capelli) e nelle saturazioni fotografiche di Maurizio Calvesi, a suggerire in entrambi i casi il dualismo tra eros e thanatos che sottende al sodalizio raccontato dal film. E ancora, dotando la storia di quella connotazione di devianza dalla normalità, percepibile da alcune inquadrature in cui le figure umane e soprattutto Anita, occupano lo spazio in maniera decentrata rispetto al centro della scena, oppure nelle riprese dal basso verso l'alto che enfatizzano la distorsione dell'ego della donna, bisognosa di sovrastare il mondo circostante.
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(pubblicato su ondacinema.it)