In risposta al mio ultimo intervento, lo stimato Ugo Agnoletto mi ha inviato le sue interessanti considerazioni che, sperando di non semplificare eccessivamente, provo a riassumere in questi termini a beneficio delle altre lettrici e degli altri lettori: come mai Gesù, nei vangeli canonici, accenna così poco al conflitto con il potere occupante romano? In seconda battuta: è possibile, di conseguenza, concludere che non siamo sufficientemente informati circa l’opinione che aveva Gesù in ordine al rapporto che intercorre tra fede e politica?
Incomincio dalla prima questione, relativa al (complesso e in buona parte, come opportunamente rileva il nostro lettore, ignoto) rapporto tra Gesù e la potenza militare occupante romana. Tutte le critiche (e sono molte) che Gesù rivolge al sistema di potere politico, economico e religioso (sfere intimamente intrecciate e, per molti aspetti, persino interdipendenti, specie nella Palestina del I secolo e.v.) sono dirette ai suoi detrattori che, stando ai resoconti evangelici cosiddetti "canonici", non sono rappresentati dai militari romani, bensì dalla classe sacerdotale gerosolimitana: il conflitto in atto tra costoro e Gesù è di natura religiosa e riguarda l'interpretazione (libera per Gesù, codificata per i sacerdoti) della Torah (termine che noi traduciamo - male - come «legge» ma che, più propriamente, dovremmo rendere con il termine «insegnamento»). Al contempo, però, il conflitto è di natura economica e socio-politica, dacché la Torah non è un sistema di dottrine metafisiche, ma un testo che pone al centro la vicenda della liberazione di un popolo di schiavi dalla tirannia di un sovrano assoluto attraverso la complessa tessitura di una relazione (come ogni storia d'amore intricata e contraddittoria) con un Dio che si schiera apertamente dalla parte degli oppressi e delle emarginate. Ecco perché la predicazione di Gesù, che si fonda interamente sulla rilettura della Torah nel solco della tradizione profetica (estremamente critica nei confronti del tempio di Gerusalemme e del suo sacerdozio), è anche, inevitabilmente, una predicazione politica, sebbene sia estremamente difficile stabilire in che misura essa chiamasse in causa l'usurpatore romano.
Vengo quindi alla sua seconda considerazione: effettivamente, fonti canoniche alla mano, è difficile ricostruire quello che fu l'atteggiamento di Gesù nei confronti della potenza militare occupante: le nostre fonti, infatti, sono di seconda (ma più opportuno sarebbe definirle persino di terza) mano, ragion per cui, circa ciò che Gesù propriamente pensava (e non solo in ordine alla politica e al suo rapporto con la fede), siamo all’oscuro e non possiamo far altro che interpretare i testi, i quali, però, non sono resoconti storiografici, bensì testimonianze appassionate. A queste ultime, siamo libere e liberi di dare credito: questo, propriamente, significa difatti il termine greco «pìstis», che traduciamo con la parola «fede». Il verbo greco corrispondente utilizzato nei vangeli così come nelle epistole paoline, «pistèuomai», ha difatti, proprio come il corrispondente "credere" in lingua italiana, una duplice, inscindibile valenza, di massima, incondizionata fiducia e di ipotesi verificabile ma anche, come voleva Karl Popper, falsificabile.
Provo a spiegarmi meglio: il verbo credere, in greco antico come in italiano, può essere usato per attestare una fiducia senza riserve («Ti credo») ma anche per esprimere perplessità («Credo che le cose stiano così» - ma, sottinteso, non ne sono così sicuro). Di fronte alle testimonianze evangeliche sulla vita e sull'attività pubblica di Gesù ci troviamo, inevitabilmente, nella stessa situazione: possiamo dare loro credito, ma è bene che il dubbio che ci attraversa intimamente ogniqualvolta prestiamo loro ascolto non venga eluso o estromesso. «Fede», infatti, significa ambedue le cose: fiducia e domanda, affidamento e rischio radicale.
Lo stesso Gesù del vangelo secondo Marco, che il nostro lettore cita opportunamente, esprime questa sconcertante ambivalenza quando, appeso alla croce per un'accusa mossagli dal sacerdozio del tempio ed eseguita dal «braccio secolare» rappresentato dall'occupante romano, esclama a gran voce, rivolgendosi a quel Padre a cui – pur nella disperazione – non ha cessato di credere: «Dio mio, Dio mio: perché mi hai abbandonato?».
Deprivata di questa sua dimensione di radicale, irrimediabile sospensione, la fede viene svuotata del suo contenuto più proprio perché più umano: e diventa così sterile ripetizione di formule vuote, banalità senza spessore, offesa arrecata alla nostra natura interrogante, abitata da un’intima, insanabile contraddizione.
Alessandro Esposito– pastore valdese (Pubblicato su MicroMega on-line – 8/5/2013)