“Hunger” ossia “Fame”, opera prima del video artista Steve McQueen, che dal lontano 2008 attende di approdare nelle nostre sale, ma solo oggi, grazie al successo riscosso da “Shame”, riesce ad arrivare a noi. Vi state domandando chi sia questo regista che nonostante due soli lungometraggi sulle spalle fa tanto parlare di sé? È una persona che riesce a non fare sbuffare una intera platea incline all’insofferenza, grazie ad un acuto spirito di osservazione a cui non sfugge il minimo dettaglio, che lo induce a mostrarci non una persona che mangia ma gli effetti fastidiosi delle briciole del suo toast sul tovagliolo; è un regista che riesce a farti provare freddo, paura e dolore con poche, taglienti e mai pietistiche immagini; è colui che ti fa respirare, ansimare e tremare coi propri attori ed è l’unico che riesce a prenderti a calci nello stomaco per 96 minuti con calibrate, non gratuite, mai volgari, ma crude, immagini che non faranno mai leva sul senso di colpa e la morale comune.
Come già visto in “Shame”, anche qui non viene impartita alcuna lezione di vita o etica e la voglia di sensazionalismo o di indurre lo spettatore ad una violenta reazione è totalmente assente. Le opere di questo cineasta inducono alla riflessione, non shoccano, non insinuano alcun dubbio preconfezionato, ma s’incuneano nella nostra mente e non se ne vanno senza prima aver lasciato un segno. Steve McQueen può piacere o no con le sue inquadrature trasversali, silenti (ma non noiose) e di forte impatto emotivo. L’essere umano, con la sua fisicità e la sua psiche, è il fulcro della storia che sempre focalizza su un solo soggetto, era il colletto bianco apparentemente rampante Brandon in “Shame” ed è Bobby Sands in “Hunger”, entrambe persone che vivono esperienze al limite, la sesso dipendenza e le sue implicazioni ieri e la decisione di lasciarsi morire di stenti oggi. Quelle due parti di un individuo che non possono essere scisse regnano sovrane sullo schermo nonostante non si rinunci ai dialoghi: le parole son presenti ma sono ben calibrate, in nessun momento sprecate e soprattutto non daranno mai luogo a lunghi e sovrabbondanti sproloqui.
Assistiamo ad una narrazione asciutta (ma travolgente) degli eventi che coinvolsero i detenuti appartenenti all’IRA che nel 1981 misero in atto, nella prigione di Long Kesh (forse più nota come The Maze, il Labirinto), un organizzato ed imponente sciopero della fame al fine di ottenere il riconoscimento dello status di prigionieri politici. Racconto suddiviso in tre momenti molto equilibrati che creano un forte legame con lo spettatore per motivi differenti: la durezza della routine carceraria, il disgusto dello sciopero delle coperte e soprattutto dello sporco, la sofferenza fisica, il freddo, sono palpabili al punto da sentire sgradevoli odori e provare fisicamente anche noi dolore per tutta la prima mezz’ora; poi sopraggiunge un serrato e spiazzante dialogo tra Bobby Sands e il sacerdote che convoca per annunciare il suo piano, momento di grande recitazione, incredibile abilità di scrittura (ci inchiniamo ai due artisti che hanno creato tale scambio che da solo vale il biglietto) e di così alta tensione da lasciarci senza fiato; e si conclude con l’inevitabile, il pugno più forte che accompagna il declino verso un’atroce consunzione di fisico e mente per… morire.
Quindi confermo, oggi ho visto un GRAN FILM che nonostante la durezza rivedrei domani, perché Steve McQueen ci ricorda cosa sia un REGISTA e quanto sia fondamentale il suo ruolo: lui è abile come pochi altri, sa cosa vuole e come ottenerlo quindi l’intensa ed impressionante interpretazione di Michael Fassbender è la naturale conseguenza.
E’ oramai un fatto: il duo McQueen-Fassbender non dobbiamo perderlo di vista!