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HOFSHAT KAITS (2007)
Regista: David Volach
Attori: Roni Aharon, Nitsam Bar, Yonathan Bashayev
Paese: Israele
Spesso una pellicola riesce ad essere particolarmente chiara nel comunicare perché si avverte in maniera sensibile la conoscenza in prima persona di quanto raccontato. Ancor più che nell'atteggiamento e nella caratterizzazione dei personaggi, ancor più che nei loro scambi, nell'atmosfera. Quest'ultima da sola rende viva la ricostruzione di una porzione di spazio geografico-temporale ben individuata e individuabile, tanto da immergere il racconto in una dimensione reale e sentita. David Volach sceglie per il suo primo lungometraggio una famiglia estremamente religiosa, appartenente ad una costola dell'ebraismo che definisce, nel suo fondamentalismo, costole le altre forme di ebraismo. Quasi le definisce, anzi, defezioni dello stesso, perché troppo, nella loro ottica, libere e distaccate dai reali insegnamenti del Torah. Padre (Assi Dayan), moglie (Sharon Hacohen) e figlio (Ilan Griff) vivono una vita dedicata unicamente al loro credo, tanto che il piccolo Menahem già studia all'interno di una scuola fondata su principi ad esso aderenti. Volach è cresciuto in una famiglia con principi ugualmente rigidi. Come il giovane protagonista del suo film, ha assorbito, più o meno forzatamente, dogmi religiosi e di conseguenza comportamentali, fino ad allineare agli stessi ogni aspetto della sua vita. Questo fino ai suoi 22 anni, età in cui decide di abbandonare, non senza difficoltà, il mondo religioso.
Al termine della visione di “My Father, My Lord”, la posizione del regista non solo risulta inequivocabile nella sua invettiva ma anche inaspettatamente forte. Non fa sconti, infatti, nel criticare una chiusura e una rigidità dalle quali, quindi, non si limita ad allontanarsi. Nel farlo, però, non sceglie sequenze plateali, scambi particolarmente mirati, né ritmi che abbiano un certo impatto emotivo sullo spettatore. Al contrario, suggerisce quell'atmosfera di cui si scriveva, delineando con cura e fedeltà uno stato d'animo, quello di coloro che non semplicemente abbracciano la fede, ma che da essa decidono di farsi traghettare, nella quale riversano, svuotandosi, ogni incertezza ed ogni paura e dalla quale si lasciano cullare. Una sorta di limbo che si rende impermeabile alle interferenze della vita attraverso l'osservanza ferrea di dogmi prestabiliti, e nel quale, pertanto, rinchiudersi e rifiutare l'imprevedibile, il dolore e la sofferenza. Ad essere rifiutate, nel contempo, sono però anche quelle sensazioni più genuine legate all'esistenza, quelle che un bambino non può soffocare così “facilmente” come un adulto.
È proprio la dicotomia tra l'incontenibile spinta all'esplorazione della vita di Menahem e l'assoluta chiusura nei confronti della stessa di suo padre, rabbino, ad essere il fulcro dell'intera narrazione. Una narrazione, come si accennava, fatta di tempi lentissimi e riflessivi. Volach sembra tenerci particolarmente a raccontare il limbo e si serve, a questo scopo, di immagini quasi irreali e dai contorni sfumati. Le luci sono particolarmente forti e contribuiscono a far scivolare in una dimensione filmica assai pronunciata il racconto. Una dimensione apparentemente calda, confortevole e soprattutto protettiva, che tiene a distanza dalla parte più passionale della vita. Ma nel momento in cui un bambino a cui è stato insegnato che gli animali sono privi di anima vede un cane soffrire palesemente insieme e per la sua padrona, difficilmente riuscirà a dare ascolto alla sua parte razionale, non ci riuscirebbe neanche volendo. È quanto accade al giovane protagonista, che inizierà ad avvertire le crepe in un disegno ideologico-comportamentale che appare sempre più debole ma contro il quale continuerà a scontrarsi attraverso le risposte del padre, dogmatiche come gli insegnamenti religiosi seguiti.
Qualche riga più sopra è stato usato un termine: “svuotare”. Il fondamentalismo, nell'ottica del regista, svuota completamente. Annulla. La figura paterna descritta, nel rifiutare la vita, sembra rifiutare anche le gioie legate all'essere padre, le responsabilità e la condivisione. Per l'intera pellicola non fa che pregare, in realtà non dice mai nulla, ripete ad oltranza versi religiosi fino a renderli una cantilena in sottofondo senza mai mostrare alcuna emozione sincera, anche di fronte allo sguardo di una moglie in parte arrabbiata e in parte delusa dal suo non nutrire anche spiritualmente ed emotivamente il loro figlio. Una vita sprecata a concentrarsi su altro, che è poi un concentrarsi sul nulla. Ed è a questo punto che il regista racconta nel dettaglio quanto svelato già inizialmente, strappando a moglie e marito il loro figlio. Nel farlo, però, opta per una scelta di sceneggiatura che pone con forza e in maniera definitiva l'accento sulla sua critica, restituendo una ferocia mascherata da riflessione amara ma poco viscerale.
L'unico difetto palese dell'esordio del regista israeliano e la scelta di affidare il ruolo del rabbino ad un attore non professionista, scelta che si fa sentire più di una volta e peraltro già dalla sequenza d'apertura. Fortunatamente, tuttavia, gli altri due attori forniscono al contrario un'ottima prova, così come lo stesso Veloch nella gestione narrativa e registica. Il risultato è una pellicola di certo non sconvolgente, ma nel suo piccolo potente e lucida.