“Per la bellezza, la bellezza del gesto” cit. Oscar
Una sera in giro per le strade di Parigi, per di più in limusine e ancor più passando tra palcoscenico e pseudo realtà è il viaggio che ho intrapreso durante la visione di Holy Motors.Teatro e cinema. Quello in cui ti trovi da osservatore e quello proposto sullo schermo e quello vissuto dal protagonista. Un set che ha i tratti che meno ti aspetti e che invece, è proprio quello in cui ognuno di noi vive quotidinamente. Le ventiquattro ore di Oscar sono il tempo del nostro giorno scandito di maschera in maschera, di ruolo in ruolo, tra stati d’animo diversi e sostituibili.
Holy motors è un film di Leos Carax, presentato in Concorso all’edizione 2012 del Festival di Cannes e giunto nelle sale italiane nel giugno 2013. Nello stesso protagonista considererei due interpretazioni: una è quella che mi fa pensare ad un omaggio alla figura dell’attore, identità multipla e volubile, straniato e visceralmente legato al suo mestiere senza un’alternativa di vita altra, con un velo di malinconia nello sguardo che noti dalla prima inquaratura. E l’altra è quella riferita più in generale all’uomo, ad ogni essere umano e alle sue mille vite.
Oscar (Denis Lavant), il nome non è un caso, è un’attore che, a bordo di una limousine allestita a camerino e guidata dalla sua chauffeuse che lo accompagna e aiuta a rispettare gli orari degli “appuntamenti”, studia il copione e si prepara per interpretare i vari personaggi una volta fuori per le strade di Parigi, in un cimitero, nelle fogne e altri posti che si rendono palcoscenico di una barbona, di un banchiere, di un folle, di un padre ecc. Denuncia sociale, citazioni, riferimenti alla storia del cinema, ai diversi generi, agli studi sul movimento e l’immagine di una sala cinematografica proprio all’inizio, riferimenti ad altri film (forse al Pianeta delle Scimmie ad esempio nel finale?) e all’arte (ho vagamente pensato alla Pietà di Michelangelo in una scena che la richiama quasi in modo blasfemo).
Lasciate perdere i ragionamenti, la logica, i significati e i tentativi di risalire ai richiami disseminati qua e là, il film è enigmatico per scelta del regista. Mira a coinvolgere lo spettatore, a colpirlo, a provocarlo, a sorprenderlo in un’ altalena di giudizi negativi e positivi, passando per sensazioni che vanno dalla curiosità al dubbio, dalla incomprensione al disgusto fino alla propria e più personale interpretazione, o meglio, alle mille interpretazioni possibili.
Holy Motors è un film virtuale e uso il termine alla Pier Levì, inteso come possibile altrimenti e il passo che dunque mi porterebbe a definirlo complesso è breve. La complessità in cui anneghi, ti perdi o ti stuzzica. Holy Motors non annoia anche se non ti piace. È la forza del cinema che guarada a nuove forme, è ciò su cui ha sempre giocato l’ espressione meno convenzionale della settima arte. Ma se cercate una storia rassicurante, dispiegata tra un inizio e una fine, a conclusione della quale non chiedervi: “cosa voleva dire?” allora non fa per voi, o forse sì perchè sarebbe l’occasione per andare oltre il cinema di consumo. Sarebbe un modo per dare speranza a chi percepisce una crisi, un cambiamento di valori sotto il peso del mercato cinematografico, di cui lo stesso Oscar considererei portavoce sul finale, quando chiede dove siano le telecamere, quando parla in modo un po’ più esplicito del suo lavoro e quando ad ascoltarlo, percepisci che qualcosa sta cambiando nel suo mondo. (La limousine ne è l’ultimo simbolo) Sarebbe l’occasione per raccogliere la sfida di chi cerca nuove strade per il racconto del cinema di oggi e del futuro.
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