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Homekilling is taping music #7

Creato il 04 dicembre 2015 da The New Noise @TheNewNoiseIt

Al settimo appuntamento con la nostra rubrica abbiamo fissato pochi ma importanti punti su quanto ci compete: Napoli, Genova e Roma rimangono le nostre realtà noise italiane preferite, del tutto esenti da vincoli di produzione e da restrizioni catalogatrici, capaci di concentrare in un progetto le attività, le idee e le attitudini, dando un significato concreto al termine sperimentazione, con una libertà compositiva tanto intensa da potersi riversare solo nella breve durata di una tape.
Delle piccole bombe arrivano, come sempre, anche dal resto dell’Europa, e alcuni nomi non sono affatto nuovi se rovistiamo un po’ tra le vecchie uscite.
Se avremo mai una scadenza regolare? Potremmo porci il problema, ma anche no.
D’altra parte, avrete anche bisogno del tempo di assimilare una decina di cassette rumorosissime a botta, no?

UMGREIFENDE, S/t (Angst, 2015)

UMGREIFENDE

La ciclicità è importante. Se la prima cassetta Angst vede gli stessi Antonio e Massimo spartirsi i lati, oggi i due sono fusi insieme, ma non è una novità. Sappiamo bene che a questo progetto “allargato” sotto l’ala di Angst, che accoglie amici e collaborazioni più saltuarie, piace frammentarsi e ricomporsi senza preoccuparsi del “chi è chi” e del “chi fa cosa”, e nemmeno noi ce ne curiamo. Questa è una produzione estiva più ristretta e calcificata, una registrazione che posa un altro piccolo sasso lungo il percorso, breve ma intensa. “Kærestesorger” è un collage si rumori e canti che rimane in bilico su una soglia, tra la realtà tangibile e una vita vissuta inconsciamente, una porta che cigola tra la certezza terrena e un sapere più profondo che non si svela del tutto, lasciandoci dispersi e spaesati del nostro quotidiano. “Åbning” è una presa di coscienza più violenta: la realtà è una sola ed è un disastro. Le distorsioni sono più espanse, tragiche, riempiono il petto di sussulti, e le corde grattate della chitarra creano una rete di cigolii e spasmi. I momenti di vuoto sonoro spezzettati tra suoni e rumori non fanno altro che amplificare un’eco di angoscia.
Un bel viaggio, dove come sempre alla fine si precipita. (Giulia A. Romanelli)

CULT OF TERRORISM / LAMIA, Split (Hatenoise Produzioni, 2015)

CULT OF TERRORISM / LAMIA

Lo slogan di questa webzine recita: “non discrimina in base alle copie vendute, ma si ostina a dar voce a chiunque sappia catturare l’attenzione”… e qui di attenzione ce n’è davvero tanta. Dieci copie (sorrido perché ne ho già una), quindici minuti di split-tape, etichetta la livornese Hatenoise, indipendente e dallo spirito battagliero e anarchico. Il florido sottobosco fiorentino e toscano, quello più cupo e malato (Valerio Orlandini, Norv e Ouroboros) si manifesta con due volti nuovi: Joshua Pettinicchio, nelle vesti di Cult Of Terrorism, e Lamia (al secolo Matilde Niccolai), che va ad arricchire, e si spera per molto tempo, quel vasto e sperimentale panorama drone-noise italico al femminile. Su un lato troviamo l’inquietante sottofondo drone dal forte impatto esoterico di Cult Of Terrorism, che squarciato da rintocchi metallici e campanellini da gatto malefico rimanda a matrici dark ambient rituale, insomma quei personaggi psicolabili che gironzolano vicino alla finlandese Aural Hypnox (vedi Aeoga). Sull’altro c’è l’istrionismo derivante dalla musica concreta incapsulato tra versi e lamenti di bambini stile Mouth Of Babes (Nigel Ayers), come dire nature ancestrali che si sposano con sonorità occulte provenienti dall’industrial e dalla darkwave più tenebrosa e satanica (Diamanda Galas?), descrivendo un paesaggio aspro ed evocativo come una sorta di pellegrinaggio verso un santuario pagano, nascosto all’interno di una caverna. Le coordinate non sono poi così difficili da immaginare: Coil e Nocturnal Emissions che fronteggiano Steven Stapelton (Nurse With Wound) travestito da pagliaccio dentro la giostra di Horse Rotorvator. Oh, tenete a mente questi nomi eh! (Massimiliano Mercurio)

POENA, Likboden (Beläten, 2012)

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Recuperiamo dunque un vecchio nastro (2012) del runico catalogo Beläten, nato dalla collaborazione fra Kristian Olsson (Alfamaria) e Christian Godin. Qualcuno pensa che un’immagine o un simbolo dicano più di mille parole: col cavolo, ma anche no, almeno non in questo caso. Mettere assieme il termine latino poena (pena, castigo) accanto a quello svedese likboden (obitorio) per alcuni è come un vorticoso fiume in piena, un’ unione che potrebbe far sciogliere la lingua perfino a un muto. Likboden – registrato all’interno di una sala mortuaria di ospedale psichiatrico svedese abbandonato – non è affatto come una di quelle oscure e nefaste pillole analgesiche (camuffate però da dolcetti della felicità) che venivano somministrate ai malati di mente per tranquillizzarli e distenderli. Tutt’altro: le sonorità stridule e sofferte, ottimamente equilibrate e orientate verso scritture pagane e rituali esoterici Zero Kama, risvegliano intenzionalmente – aiutate dalla pesantezza inferta dalle martellate scuola death-industrial Cold Meat – malvagi spettri e demoni interiori. Likboden potrebbe anche essere il nome di un farmaco – perché no? – quindi leggete bene la posologia del bugiardino: assumere una pasticca ogni trenta minuti, vietata la somministrazione ai bambini e deboli di cuore. (Massimiliano Mercurio)


70FPS, Campo Catodico (Archivio Diafònico, 2015)

70FPS, Campo Catodico

Progetto multi-disciplinare tra cinema, arte visuale e musica, 70fps nasce nel 2011 nella testa di Andrea Saggiomo. Un lavoro simultaneo tra pellicola e strumenti elettroacustici che crea una fusione inscindibile tra vista e udito, dove gli strumenti di proiezione e trasformazione delle immagini sono essi stessi protagonisti del suono, come lo stridio degli ingranaggi nel campo visivo di un operaio.
Poiché opera con pellicole preparate, super8, home movies, inchiostri e quant’altro, l’impressione sulla retina è una componente fondamentale del lavoro di Saggiomo, che è uscito su dvd per la VIANDE col titolo “But You Are”. Ci chiediamo pertanto se la sua prima uscita su cassetta, in cui nemmeno l’artwork suggerisce la complessità dell’insieme, sia una prova, un tentativo di sintesi estrema. Gli architetti sanno che una prospettiva accidentale con un solo punto di fuga è un paradosso, ad ogni modo ben venga questa operazione che può avvicinare i semplici ascoltatori a un progetto interessante e vecchia scuola, come piace a noi. (Giulia A. Romanelli)


NAIL CLUB, Imagined Scenes (Vanity Pill Tapes, 2015)

NAIL CLUB, Imagined Scenes

Nail Club è l’americana Sara Nicole Storm. Sì, ma questo nome non mi è nuovo, infatti è già stato intravisto quando fece un remix per Unknown Sister. Imagined Scenes esce per l’inglese Vanity Pill e seguito dell’edizione limitata uscita per la Hatets Dok. Le coordinate vanno da una sorta di industrial computerizzata e robotica a geometrie techno danzerecce e rimbombanti, ma non mancano brevi intermezzi di pensiero e disincanto (“Second Guess”). Insomma, tutta roba che taglia, fa sanguinare e lacrimare: dai laser a impulsi che scolpiscono piastrelle in ceramica color avorio, alle ritmiche tribali provenienti da una giungla vietnamita (“Rhythm And Heaven”), passando per le melodie sintetiche e metallizzate al profumo intenso di rosa canina (“//”), fino ad arrivare agli scrostanti beat derivanti da manodopera scioperante in catena di montaggio, reparti verniciatura e fonderia che inscenano una specie di dancefloor operaia e sporca di sudore (“Deep Werk”). Cara Nail Club, siccome quest’ultima traccia potrebbe far sciogliere gli arti anche ad un elefante, ti aspettiamo al varco con nuove evoluzioni ballerine, magari più noise e virali, qualcosa simile ai Terrorfakt. Edizione limitata a solo venti copie. (Massimiliano Mercurio)

SILVIA KASTEL, Voice Studies (My Dance The Skull, 2015)

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Gira voce che Silvia Kastel abbia lasciato il duo dei Control Unit, se è vero me ne farò una ragione, ma la cosa fa un pochino tristezza. Ovviamente non è rimasta al palo, rispuntando per la londinese My Dance The Skull all’interno dell’ottima collana Voice Studies, a cui hanno già partecipato illustri artisti come Maurizio Bianchi, Z’EV e Aki Onda. Come sottolinea appunto il titolo, trattasi di esperimenti vocali, e in questa occasione la Kastel utilizza la propria voce (con l’aiuto di schizzati sintetizzatori) per creare un interessante prodotto acustico, strambo e lunatico, con contenuti talvolta perfino mantra. Una bizzarria vocale che porta, opportunamente modulata e storpiata nelle tonalità, a risultati simili a filastrocche (“Trippin’ On Yr Backdoor”), sottofondi rituali da tempio buddista (“Body”) e pianti di neonati dentro un parco giochi giapponese (“J-Hop Bar”). Cento sono le copie di quest’isterica e pazzoide cassetta, affrettatevi! (Massimiliano Mercurio)

FUNGI FROM YUGGOTH / LITURGIA MALEFICARUM, Once Upon a Timeless Void (Diazepam, 2015)

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Una collaborazione interessante tra Liguria ed Emilia, dove compaiono facce ben conosciute. Se eravamo abituati ad associare la Diazepam di Mauro Sciaccaluga a brevi sessioni di harsh noise (ma con delle sorprese), qui ci immergiamo in dimensioni ben più dilatate nel tempo. Le band che si ispirano a H.P. Lovecraft non sono poche, ma qui andiamo oltre una memoria che si ferma ad un nome pomposo dal logo illeggibile. I Fungi From Yuggoth suonano in presa diretta, anche se la musica è quasi inscindibile da campionamenti, oscillazioni, registrazioni di canti della domenica e di altre celebrazioni meno ortodosse. Ne sorge una rievocazione ipnotica, un insieme dark ambient denso di riferimenti e ispirazioni, che trasla da momenti di vuoto sordo ad esplosioni di voci e lamenti allo stesso modo in cui i racconti di Lovecraft lasciano spazio a descrizioni maniacali e buchi d’angoscia e inerzia per poi strizzarti le budella con un colpo basso. Racconto preferito? “The Festival / La Ricorrenza”.
Il lato dei Liturgia Maleficarum (Adamennon + Gabriele Terror Firmer/Gravesite/Cancer Spreading) ci riporta a ritmi più terreni, una musica più tangibile e sanguigna. Doom greve ed estenuante, una lunga apnea nel buio che dialoga con le dilatazioni e contrazioni della prima parte. Qualche momento di lucidità horror anni Ottanta non manca (“Mater Abominationum, Ante Te Genuflecto”), un intreccio di organo e torture lontane dalla luce del sole.

Uno split davvero ben riuscito, speriamo di vederne altri prossimamente. (Giulia A. Romanelli)

OROGEN, As Hammers Seal The Gates (Shadow Kingdom Records, 2015)

Orogen

È con un misto di scetticismo e curiosità che ci si avvicina alla nuova cassetta degli Orogen, in quanto il loro demo era caratterizzato da una produzione povera, che lasciava comunque trasparire del potenziale. Con As Hammers Seal The Gates la situazione cambia e il suono impreciso esibito in precedenza risulta levigato a dovere: vi è meno riverbero ed è stata posta la dovuta attenzione sull’esecuzione in sé. Le linee vocali rappresentano l’aspetto di maggiore rilievo di “From The Mouth”, in quanto riescono a essere nello stesso tempo tenebrose e malinconiche, accompagnando in modo ottimale le litanie plasmate dagli altri strumenti. “The Bell” segue le medesime coordinate stilistiche e amplifica l’afflato drammatico, pur mantenendo intatta la tendenza ad alternarlo a fugaci incursioni in territori heavy metal. Trattandosi di una band in cui operano due soli musicisti (Andrew Robinson e Jon Lang), è comprensibile che vi sia relativamente poca varietà da un punto di vista stilistico, ma data la natura del tutto ancronistica del doom metal proposto dalla formazione di Madison (Wisconsin), suddetta monoliticità si rivela un pregio. In breve, ci si trova dinanzi alla riproposizione di quell’amalgama crepuscolare che ha fatto la (s)fortuna dei Saint Vitus con Scott Reagers, e questo è quanto: gli episodi offerti in questa sede non stravolgeranno la vostra vita, ma sapranno risvegliare antiche emozioni, rinnovando ancora una volta la passione per la musica del destino. (Samuele Lepore)

ZODIAC, Stone Command (Heavy Chains Records & Tapes, 2015)

ZODIAC, Stone Command

Si era parlato degli Zodiac in occasione della quinta puntata di questa rubrica e non è senza sorpresa che ci si ritrova a recensire così presto un loro ep. Anche stavolta il formato scelto per presentare i nuovi brani è quello della musicassetta. La tiratura si rivela essere ancora una volta limitata e un po’ spiace, ma forse si tratta di una precisa scelta artistica. Il suono qui diviene maggiormente viscerale che in passato, inglobando al suo interno diversi passaggi strumentali dai quali traspare l’influenza che certo heavy rock di fine anni Settanta ha esercitato sullo stile dei chitarristi Ryan Cooper e Leo Price. “The Noose” è cadenzata quanto basta per fare la gioia di qualsiasi estimatore della scena doom americana e come spesso avveniva anche nei dischi di quelle band (Revelation in primis) non mancano spunti di riflessione sociale (When injustice becomes law / The law must be brought to justice / When freedom is outlawed / Only outlaws will be free) e momenti in cui la sezione ritmica preme sull’acceleratore. “The Devil’s Cavarly” si delinea quale monito di un avvenire infausto (Brother are you listening / Sister don’t you see / No man nor god above us / The engine set us free) e si colloca a metà tra la precedente produzione dei cinque musicisti di Brisbane (Australia) e la solenne epicità di “Legacy”; questo è l’episodio più rappresentativo della metamorfosi in atto, cui segue un rinnovato approccio lirico, assimilabile a quello di Dan Fondelius (Count Raven): I feel it coming / The signs are all around / A tragedy upon us / This ship is going down / Tell me do you hear it brother / Screaming in the wind / We cross the void / Embrace the end. La vena narrativa evidenziata in questa sede potrebbe condurre a risultati ancor più personali, ma è innegabile che quanto proposto in Stone Command rappresenti qualcosa più di un semplice spunto… (Samuele Lepore)

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