In entrambi i casi, i figli vengono educati a casa, senza zaini, maestre, campanelle, grembiuli e compagni di classe. La differenza è che nell’homeschooling si ricrea la scuola tra le mura di casa, seguendo dei programmi e dedicando un lasso di tempo specifico allo studio, mentre nell’unschooling i figli sono liberi di decidere come, dove, quando e soprattutto cosa imparare. I ragazzi educati a casa negli Stati Uniti sono circa 2 milioni, 70mila in Inghilterra, 60mila in Canada, 3mila in Francia e 2mila in Spagna. In Italia le famiglie che hanno scelto l’educazione parentale a casa per i propri figli sono circa un migliaio. Il trend è in continua crescita. Le conferenze sul tema sono sempre più affollate di genitori “maestri”, che a settembre si ritrovano per i festeggiamenti di “Non rientro a scuola”. E tutto è assolutamente legale. Come Erika spiega nel suo blog Controscuola, l’articolo 34 della Costituzione recita: “L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”. «È l’istruzione a essere obbligatoria, non la scuola», spiega Erika. «Inoltre l’articolo 30 dice che “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio”. L’istruzione dei figli quindi è in primis una responsabilità dei genitori, non dello Stato». Basta inviare una lettera e comunicare ogni anno alla direzione didattica di competenza la volontà di educare i figli a casa. Alla prima lettera deve essere allegata l’autocertificazione che attesta «le capacità tecniche e le possibilità economiche dei genitori». Solo un’autocertificazione, senza che ai genitori venga richiesto un titolo di studio specifico. Molti genitori che fanno homeschooling lavorano nella scuola e proprio perché conoscono la situazione tengono i figli a casa «La scelta di educare i nostri figli a casa», racconta Erika, «è maturata quando il più grande era in età da scuola materna. Giravo e rigiravo ma non riuscivo a trovare una struttura che sposasse l’idea di rispetto del bambino e dei suoi tempi. Alla fine ne ho trovato una bella, ma c’erano troppi episodi di violenza tra bambini emio figlio era sempre nervoso». Così è nata l’idea di fare homeschooling, la scuola fai-da-te a casa. Erika è molto critica verso il tradizionale sistema scolastico italiano: «Ci sono troppi bambini in una sola classe, le insegnanti hanno poco tempo da dedicare individualmente a ciascun bambino e anche se si tratta di professionisti meravigliosi, alla fine lo stesso sistema scolastico non li valorizza e li porta a perdersi». Non a caso, dice, «almeno il 50% delle persone che fanno educazione parentale hanno a che fare con la scuola, o sono insegnanti di ruolo o lavorano in segreteria, e proprio perché sanno qual è la situazione nelle scuole tengono i figli a casa. E l’interesse è in crescita, ricevo almeno cinque email al giorno di genitori che vogliono sapere come fare homeschooling». Erika, dal canto suo, è un’ex insegnante, e la scuola la conosce bene. Ma pure lei l’ha lasciata per dedicarsi alla sua scuola domestica, al blog Controscuola e sull’argomento ha scritto pure un libro, Homeschooling: l’educazione parentale a scuola. Anche suo marito è riuscito a ottenere il telelavoro per quattro giorni alla settimana, e collabora alle attività familiari. «I bambini», racconta Erika, «sono coinvolti ogni giorno nel lavoro dei genitori, rispettano i nostri tempi quando siamo impegnati e assistono alle dinamiche domestiche, partecipando anche ai lavori di casa. Mi aiutano a fare la spesa, a cucinare e a pulire. Sanno molto di economica domestica, sanno come gestire i soldi. Insomma, conoscono molte più cose rispetto ai bambini relegati in una classe». Con quattro figli, la casa di Erika tra Pavia e Milano è come una piccola classe. Dai due ai dieci anni, tutti apprendono insieme, a seconda dei propri interessi e delle proprie passioni. E principalmente in inglese, visto che lei è italo americana. Il termine unschooling è stato coniato negli anni Settanta da John Holt e ribalta completamente l’idea di scuola, fatta di banchi, libri, quaderni, compiti e orari. Niente di tutto questo avviene se si fa unschooling. «Seguiamo le passioni dei bambini», spiega Erika, «è difficile raccontare una giornata tipo. Ad esempio, oggi siamo stati alla mostra sui dinosauri a Milano, quindi prima di andare abbiamo parlato dell’inizio della vita sulla Terra e del Big Bang». Si guardano molti film e documentari, si sta molto all’aperto, ma si consultano anche i libri. «Qualcuno lo prendo su Internet, qualche altro in biblioteca, ma in casa abbiamo anche i classici eserciziari». Non c’è un programma specifico, poesie da imparare a memoria, e “fiumi del Canada” da ripetere durante una interrogazione di fronte alla cattedra. «Gli argomenti vengono ripresi anche più volte e vengono coinvolti tutti, senza forzature. Io mi annoto tutte le loro domande. Se per esempio andiamo al parco e mi chiedono perché la pallina cade giù dallo scivolo, quel giorno parliamo della gravità. È tutto molto naturale». Un altro esempio? «Se programmiamo un viaggio in Spagna, prima di partire tiriamo fuori la cartina e studiamo un po’ di geografia, senza la pappardella delle città della Spagna che chiedono durante le interrogazioni. Tutte informazioni che solitamente si imparano solo per una interrogazione e poi si staccano dal cervello. Unendo invece l’esperienza alla teoria, assimili molto di più. Sono esperienza e relazioni che creano la memoria». Non ci sono programmi. Se per esempio andiamo al parco e mi chiedono perché la pallina cade giù dallo scivolo, quel giorno parliamo della gravità. Tra i conti da fare per la spesa, le pulizie domestiche e le discussioni sui dinosauri o la gravità, lo studio è continuo, lungo tutta la giornata. Senza una campanella che sancisce l’inizio e la fine delle lezioni. «Quando pulisco con aceto e bicarbonato, i due prodotti fanno una reazione chimica. Loro lo vedono. E poi dico: “Adesso andiamo a studiare perché fanno le bolle”». Il segreto, dice Erika, «non è dare loro la conoscenza stampata su un libro, ma gli strumenti per arrivare alla conoscenza. È un modo diverso di studiare». Nell’educazione parentale non esistono classi e orari. «Andiamo molto in giro, viaggiamo molto. Ma questo non significa che abbiamo tanti soldi da spendere. Con l’homeschooling risparmiamo tanto, non avendo spese per materiali scolastici, mensa, vestiti da usare ogni giorno e rette di asili. La fortuna, poi, è che possiamo partire quando gli altri sono al lavoro, e quindi spendiamo di meno. In più ho messo la nostra casa su AirBnb: quando arrivano gli ospiti, noi partiamo con i soldi che guadagniamo». E se c’è qualche materia che mamme, papà, zii o vicini di casa non conoscono, si chiama un insegnante esterno. «Quando mio figlio ha espresso il desiderio di voler imparare a suonare la chitarra, ho chiamato un insegnante di musica», racconta Erika. «E qualche anno fa studiavamo chimica insieme ad altre famiglie con una ragazza che aveva una laurea specifica». Essere chiusi in un edificio, confinati in una classe, non è proprio l’ideale per socializzare. I miei figli hanno tanti amici lo stesso. E la socializzazione con gli altri bambini? «Questa è la domanda che mi fanno tutti», dice Erika. «Bisogna chiedersi che tipo di socializzazione sia quella che vivono i bambini a scuola. Basta andare in una classe per capirlo. Essere chiusi in un edificio, confinati in una classe di bambini che hanno tutti la stessa età, dove bisogna stare seduti per la maggior parte del tempo, non è proprio lo scenario ideale per socializzare. Inoltre in ogni classe ci sono episodi di bullismo, situazioni di competitività esasperata, status basati sui vestiti, tabagismo o linguaggio volgare». I quattro figli di Erika fanno diverse attività pomeridiane, dalla danza alla musica, ed è lì che incontrano gli altri bambini. «Hanno molti amici scolarizzati», dice lei, «che dicono loro “quanto siete fortunati!”. La fortuna dei miei figli è che hanno tanto tempo libero e possono dedicarlo per fare e pensare a cosa gli piace fare di più. Cosa che i bambini normalmente non fanno». Un aneddoto: «Mio figlio era al parco a giocare e c’erano i suoi amici che dicevano che dovevano andare via perché avevano dieci problemi di matematica da fare. Lui è tornato raccontandomi le loro lamentele. Mi ha detto: “Non è possibile che hanno tutti questi compiti!”». Nell’unschooling i compiti non si fanno. «Perché li devo torturare? Non ne vedo l’utilità». Ma, assicura Erika, «le regole ci sono nel senso di principi, l’apprendimento però è libero». Qualche homeschooler, in realtà, i compiti e gli esami li fa. Le filosofie sono diverse. Anche nella stessa famiglia ci possono essere bambini che vanno a scuola e altri che fanno homeschooling. Qualcuno manda i figli ogni anno a fare un esame di idoneità a conclusione dell’anno scolastico, qualche altro a fine di ogni ciclo scolastico, altri non lo fanno affatto. Ma se un bambino vuole tornare a scuola, deve prima sostenere un esame. «Ogni anno all’inizio dell’anno scolastico chiedono ai miei figli se vogliono che li iscriva a scuola», dice Erika, «loro finora mi hanno detto che non ne avevano nessuna intenzione». Il figlio più grande tra poco comincerà le medie e poi arriveranno le superiori. «Farà le media in homeschooling», dice Erika. «Poi penso che si iscriverà a una high school online, ma ovviamente sarà libero di scegliere quello che vuole». Fonte: www.linkiesta.it
In entrambi i casi, i figli vengono educati a casa, senza zaini, maestre, campanelle, grembiuli e compagni di classe. La differenza è che nell’homeschooling si ricrea la scuola tra le mura di casa, seguendo dei programmi e dedicando un lasso di tempo specifico allo studio, mentre nell’unschooling i figli sono liberi di decidere come, dove, quando e soprattutto cosa imparare. I ragazzi educati a casa negli Stati Uniti sono circa 2 milioni, 70mila in Inghilterra, 60mila in Canada, 3mila in Francia e 2mila in Spagna. In Italia le famiglie che hanno scelto l’educazione parentale a casa per i propri figli sono circa un migliaio. Il trend è in continua crescita. Le conferenze sul tema sono sempre più affollate di genitori “maestri”, che a settembre si ritrovano per i festeggiamenti di “Non rientro a scuola”. E tutto è assolutamente legale. Come Erika spiega nel suo blog Controscuola, l’articolo 34 della Costituzione recita: “L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”. «È l’istruzione a essere obbligatoria, non la scuola», spiega Erika. «Inoltre l’articolo 30 dice che “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio”. L’istruzione dei figli quindi è in primis una responsabilità dei genitori, non dello Stato». Basta inviare una lettera e comunicare ogni anno alla direzione didattica di competenza la volontà di educare i figli a casa. Alla prima lettera deve essere allegata l’autocertificazione che attesta «le capacità tecniche e le possibilità economiche dei genitori». Solo un’autocertificazione, senza che ai genitori venga richiesto un titolo di studio specifico. Molti genitori che fanno homeschooling lavorano nella scuola e proprio perché conoscono la situazione tengono i figli a casa «La scelta di educare i nostri figli a casa», racconta Erika, «è maturata quando il più grande era in età da scuola materna. Giravo e rigiravo ma non riuscivo a trovare una struttura che sposasse l’idea di rispetto del bambino e dei suoi tempi. Alla fine ne ho trovato una bella, ma c’erano troppi episodi di violenza tra bambini emio figlio era sempre nervoso». Così è nata l’idea di fare homeschooling, la scuola fai-da-te a casa. Erika è molto critica verso il tradizionale sistema scolastico italiano: «Ci sono troppi bambini in una sola classe, le insegnanti hanno poco tempo da dedicare individualmente a ciascun bambino e anche se si tratta di professionisti meravigliosi, alla fine lo stesso sistema scolastico non li valorizza e li porta a perdersi». Non a caso, dice, «almeno il 50% delle persone che fanno educazione parentale hanno a che fare con la scuola, o sono insegnanti di ruolo o lavorano in segreteria, e proprio perché sanno qual è la situazione nelle scuole tengono i figli a casa. E l’interesse è in crescita, ricevo almeno cinque email al giorno di genitori che vogliono sapere come fare homeschooling». Erika, dal canto suo, è un’ex insegnante, e la scuola la conosce bene. Ma pure lei l’ha lasciata per dedicarsi alla sua scuola domestica, al blog Controscuola e sull’argomento ha scritto pure un libro, Homeschooling: l’educazione parentale a scuola. Anche suo marito è riuscito a ottenere il telelavoro per quattro giorni alla settimana, e collabora alle attività familiari. «I bambini», racconta Erika, «sono coinvolti ogni giorno nel lavoro dei genitori, rispettano i nostri tempi quando siamo impegnati e assistono alle dinamiche domestiche, partecipando anche ai lavori di casa. Mi aiutano a fare la spesa, a cucinare e a pulire. Sanno molto di economica domestica, sanno come gestire i soldi. Insomma, conoscono molte più cose rispetto ai bambini relegati in una classe». Con quattro figli, la casa di Erika tra Pavia e Milano è come una piccola classe. Dai due ai dieci anni, tutti apprendono insieme, a seconda dei propri interessi e delle proprie passioni. E principalmente in inglese, visto che lei è italo americana. Il termine unschooling è stato coniato negli anni Settanta da John Holt e ribalta completamente l’idea di scuola, fatta di banchi, libri, quaderni, compiti e orari. Niente di tutto questo avviene se si fa unschooling. «Seguiamo le passioni dei bambini», spiega Erika, «è difficile raccontare una giornata tipo. Ad esempio, oggi siamo stati alla mostra sui dinosauri a Milano, quindi prima di andare abbiamo parlato dell’inizio della vita sulla Terra e del Big Bang». Si guardano molti film e documentari, si sta molto all’aperto, ma si consultano anche i libri. «Qualcuno lo prendo su Internet, qualche altro in biblioteca, ma in casa abbiamo anche i classici eserciziari». Non c’è un programma specifico, poesie da imparare a memoria, e “fiumi del Canada” da ripetere durante una interrogazione di fronte alla cattedra. «Gli argomenti vengono ripresi anche più volte e vengono coinvolti tutti, senza forzature. Io mi annoto tutte le loro domande. Se per esempio andiamo al parco e mi chiedono perché la pallina cade giù dallo scivolo, quel giorno parliamo della gravità. È tutto molto naturale». Un altro esempio? «Se programmiamo un viaggio in Spagna, prima di partire tiriamo fuori la cartina e studiamo un po’ di geografia, senza la pappardella delle città della Spagna che chiedono durante le interrogazioni. Tutte informazioni che solitamente si imparano solo per una interrogazione e poi si staccano dal cervello. Unendo invece l’esperienza alla teoria, assimili molto di più. Sono esperienza e relazioni che creano la memoria». Non ci sono programmi. Se per esempio andiamo al parco e mi chiedono perché la pallina cade giù dallo scivolo, quel giorno parliamo della gravità. Tra i conti da fare per la spesa, le pulizie domestiche e le discussioni sui dinosauri o la gravità, lo studio è continuo, lungo tutta la giornata. Senza una campanella che sancisce l’inizio e la fine delle lezioni. «Quando pulisco con aceto e bicarbonato, i due prodotti fanno una reazione chimica. Loro lo vedono. E poi dico: “Adesso andiamo a studiare perché fanno le bolle”». Il segreto, dice Erika, «non è dare loro la conoscenza stampata su un libro, ma gli strumenti per arrivare alla conoscenza. È un modo diverso di studiare». Nell’educazione parentale non esistono classi e orari. «Andiamo molto in giro, viaggiamo molto. Ma questo non significa che abbiamo tanti soldi da spendere. Con l’homeschooling risparmiamo tanto, non avendo spese per materiali scolastici, mensa, vestiti da usare ogni giorno e rette di asili. La fortuna, poi, è che possiamo partire quando gli altri sono al lavoro, e quindi spendiamo di meno. In più ho messo la nostra casa su AirBnb: quando arrivano gli ospiti, noi partiamo con i soldi che guadagniamo». E se c’è qualche materia che mamme, papà, zii o vicini di casa non conoscono, si chiama un insegnante esterno. «Quando mio figlio ha espresso il desiderio di voler imparare a suonare la chitarra, ho chiamato un insegnante di musica», racconta Erika. «E qualche anno fa studiavamo chimica insieme ad altre famiglie con una ragazza che aveva una laurea specifica». Essere chiusi in un edificio, confinati in una classe, non è proprio l’ideale per socializzare. I miei figli hanno tanti amici lo stesso. E la socializzazione con gli altri bambini? «Questa è la domanda che mi fanno tutti», dice Erika. «Bisogna chiedersi che tipo di socializzazione sia quella che vivono i bambini a scuola. Basta andare in una classe per capirlo. Essere chiusi in un edificio, confinati in una classe di bambini che hanno tutti la stessa età, dove bisogna stare seduti per la maggior parte del tempo, non è proprio lo scenario ideale per socializzare. Inoltre in ogni classe ci sono episodi di bullismo, situazioni di competitività esasperata, status basati sui vestiti, tabagismo o linguaggio volgare». I quattro figli di Erika fanno diverse attività pomeridiane, dalla danza alla musica, ed è lì che incontrano gli altri bambini. «Hanno molti amici scolarizzati», dice lei, «che dicono loro “quanto siete fortunati!”. La fortuna dei miei figli è che hanno tanto tempo libero e possono dedicarlo per fare e pensare a cosa gli piace fare di più. Cosa che i bambini normalmente non fanno». Un aneddoto: «Mio figlio era al parco a giocare e c’erano i suoi amici che dicevano che dovevano andare via perché avevano dieci problemi di matematica da fare. Lui è tornato raccontandomi le loro lamentele. Mi ha detto: “Non è possibile che hanno tutti questi compiti!”». Nell’unschooling i compiti non si fanno. «Perché li devo torturare? Non ne vedo l’utilità». Ma, assicura Erika, «le regole ci sono nel senso di principi, l’apprendimento però è libero». Qualche homeschooler, in realtà, i compiti e gli esami li fa. Le filosofie sono diverse. Anche nella stessa famiglia ci possono essere bambini che vanno a scuola e altri che fanno homeschooling. Qualcuno manda i figli ogni anno a fare un esame di idoneità a conclusione dell’anno scolastico, qualche altro a fine di ogni ciclo scolastico, altri non lo fanno affatto. Ma se un bambino vuole tornare a scuola, deve prima sostenere un esame. «Ogni anno all’inizio dell’anno scolastico chiedono ai miei figli se vogliono che li iscriva a scuola», dice Erika, «loro finora mi hanno detto che non ne avevano nessuna intenzione». Il figlio più grande tra poco comincerà le medie e poi arriveranno le superiori. «Farà le media in homeschooling», dice Erika. «Poi penso che si iscriverà a una high school online, ma ovviamente sarà libero di scegliere quello che vuole». Fonte: www.linkiesta.it
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