Anna Lombroso per il Simplicissimus
Lo ammetto, non amo l’umanità, amo alcune persone. Non mi riconosco in una patria, la mia heimat sono quelli che amo e che mi amano. Non sento di appartenere a un popolo, anche se ne rispetto la storia, se parla anche di riscatto, la tradizione e la cultura, se parlano anche di poveri e oppressi oltre che di eroi, navigatori e poeti.
Penso che abbiano ragione gli amici che ieri a commento del mio post sull’ordinario capitolo di corruzione sempre riaperto, mi hanno ricordato le responsabilità degli italiani, i vizi connaturati alla nostra autobiografia nazionale, l’indole all’ubbidienza alla chiesa, alla prepotenza di tiranni idolatrati e velocemente rinnegati, l’inclinazione all’oblio del proprio passato, anche quello glorioso, la predisposizione a un conformismo di comodo, un istinto a convertire un malcostume: familismo, clientelismo, corruzione, in inevitabile scorciatoia per difendersi ancora più tollerabile e legittimata quando tutto diventa e per “legge”, precario, arbitrario, discrezionale: partecipare a concorsi, chiedere un’autorizzazione, farsi concedere un permesso, piazzarsi in una lista d’attesa alla Asl, conservarsi un posto a scuola.
E per questo nella mia vita ho compiuto scelte solo apparentemente scomode, che mi sarebbe sembrato insopportabile invece adeguarmi, assecondare, assoggettarmi, per educazione, indole, forse solo per fortuna, quella della lotterai naturale che mi ha fatto nascere e crescere in una città particolare, in una famiglia speciale, senza il becco di un quattrino, ma ricca di affetto, sensibilità, intelligenza, amore per la cultura e la bellezza, culto dell’indipendenza, della libertà, dell’antifascismo, della critica e dell’onestà, tanto che per via di quella diversità della sinistra a Natale si rimandava al mittente un panettone in odor di inopportuna blandizie. Per questo mi sento autorizzata a “chiamarmi” fuori, a non far parte di quel “noi” letargico, anestetizzato più che correo, sicuramente intossicato, prima dal relativo benessere, poi dalla spettacolarizzazione delle nostre esistenze, fino all’illusoria proiezione sui nostri schermi di una vita parallela, infine dalla “necessità” della rinuncia ai diritti, dell’abiura della solidarietà, della estinzione di dignità e critica.
Si hanno ragione i miei amici. Ma il fatto che gli italiani si siano mostrati permeabili ad autoritarismo, consumismo, leaderismo, inclini al culto della personalità, all’accettazione di modelli sociali e culturali aberranti, cosicché vizi pubblici e privati a cominciare da egoismo, ambizione, avidità e vanità vengano interpretati come qualità che predispongono all’affermazione di sé, al successo nella vita pubblica, non toglie che ci sia stato un concorso di responsabilità e soprattutto la pressione formidabile della teocrazia del mercato, che nelle sue liturgie libera e celebra veleni nascosti dei quali in altri tempi ci si sarebbe vergognati, che rende accettabili e sdogana comportamenti scellerati o iniqui, giustificati e imitati in quanto generalizzati, diffusi, ormai comuni.
Ha ragione il Simplicissimus oggi, nella sua reprimenda nei confronti di un Occidente che svende la sua sedicente leadership morale, troppo spesso consolidata nel sangue, per un Rolex, simbolo di un tempo segnato dall’avidità di profitto, dalla cancellazione delle democrazie tramite la rinuncia di popoli e stati alla sovranità, dalla fine del lavoro trasformato in servitù precaria.
Così la pedagogia impartita dal ceto dirigente si fondi sul cattivo esempio, sull’oltraggio di regole, comprese quelle della concorrenza, sul personalismo e sulla sopraffazione del bene comune e del pubblico, che sconfinano nella privatizzazione desiderabile dei partiti, della rappresentanza, della costituzione, sullo sconvolgimento del rapporto tra «politica» e «politici», un tempo intesi come «uomini delle istituzioni», oggi espressi direttamente dalle varie cerchie, dai vari gruppi di potere, dalle varie lobby in cui si struttura il blocco dominante, in modo che la politica sia terreno di scorreria e monopolio di un oligopolio di pochi, nel quale i cittadini possono intervenire occasionalmente – se proprio lo vogliono, ma se non lo fanno significa che finalmente il paese è maturo, all’altezza con le altre potenze occidentali – nel seggio elettorale.
E la cittadinanza perde via via diritti e sovranità, specularmente a una politica che delega le scelte fondamentali ai centri del potere europeo, che mette nei posti decisivi i tecnocrati incompetenti, pasticcioni e disinvolti, che vincola in maniera rigida anche le scelte degli enti locali, condannandosi al degrado, all’isolamento, alla consegna a poteri padronali interni ed esterni, alla corruzione, diventata inevitabile sistema istituzionalizzato messo in pratica dalle organizzazione “del fare”, tramite grandi opere, sacco del territorio, svendita del patrimonio pubblico, appalti opachi, concertazione attiva con la criminalità organizzata, intercettazione della spesa in servizi pubblici, urbanistica contrattata in favore di immobiliaristi e speculatori.
Ecco, non è facile sottrarsi a modelli imperniati sull’accaparramento di beni e potere, smania compulsiva indotta nell’individuo contemporaneo, cui non possiamo guardare come a una pena comminata per la perduta innocenza dell’Eden. Ma come al prodotto fisiologico della pressione esercitata dai valori dominanti sull’immaginario collettivo alterato dalle droghe di una comunicazione infarcita di esortazioni a competere, a crescere, a produrre per consumare, a essere duttili, efficienti, giovani, belli, veloci per entrare nel futuro come fosse un gioco a premi virtuale e individuale, perché tutto deve concorrere a farci essere sempre più soli, sempre più diffidenti, sempre più egoisti, che l’unica coesione ammessa è quella del branco dei predatori, oggi più che mai homo homini lupus.