HOMO NALEDI
Rinvenuti in Sudafrica i resti fossili di un nuovo ominide
di Cecily P. Flinn
La terra conserva, preserva, nasconde, trattiene, e sta all’uomo scavare, disseppellire, scoprire, riportare alla luce. La nostra storia profonda è scritta nei fossili, in sparuti e sbriciolati frammenti ossei fortunosamente sopravvissuti alla macina del tempo. La paleoantropologia sta tentando di stilare una biografia quanto più esaustiva e attendibile di Homo sapiens, e ogni nuova scoperta, piccola o grande, aggiunge qui una parola, lì una frase, e nei casi migliori un intero capitolo. È stato da poco reso noto il ritrovamento di un nuovo antenato dell’uomo, un ominide vissuto circa due milioni e mezzo di anni fa (tra Pliocene e Pleistocene). L’Homo naledi è stato rinvenuto in Sudafrica, non molto distante da Johannesburg, a una profondità di oltre trenta metri, nel grande complesso di caverne di Rising Star, e più precisamente nella caverna Dinaledi Chamber; più gli scavi procedono e più il sito si rivela ricco di depositi fossili di ominidi, forse addirittura il più ricco finora mai scoperto. La ricostruzione dell’Homo naledi è avvenuta attraverso 1500 frammenti ossei (riconducibili a circa quindici diversi individui), e fin dal primo momento era ben chiaro che ci si trovava di fronte a una specie sconosciuta.Homo naledi era alto circa un metro e mezzo e pesava mediamente quarantacinque chili; il suo cervello, non particolarmente sviluppato, all’incirca delle dimensioni di un’arancia, era simile a quello degli scimpanzé. Nel suo insieme mostra caratteristiche intermedie tra Australopithecus e Homo, un curioso equilibrio tra primitivismo e modernità; gli arti inferiori presentano caratteristiche simili a quelli di Homo sapiens, ma la conformazione del bacino è più vicina a quella dell’Australopithecus afarensis. La particolare conformazione ossea ci dice che Homo naledi poteva sia arrampicarsi agevolmente, sia camminare e correre; si credeva che l’Homo in posizione eretta avesse progressivamente perso l’abilità di salire sugli alberi, ma ecco che questo nuovo ominide smentisce clamorosamente la diffusa convinzione. Le proporzioni delle dita sono simili a quelle dell’uomo, con falangi però molto incurvate (anche più incurvate dell’Australopithecus); anche la conformazione dei piedi è molto simile a quella dell’uomo, «…quasi indistinguibili da quelli di un essere umano» ha dichiarato senza nascondere lo stupore William Harcourth-Smith, uno dei tanti studiosi che hanno preso parte alla ricerca. La scoperta, di importanza davvero straordinaria, è stata annunciata dall’Università del Witwatersrand (Sudafrica), dalla National Research Foundation (Sudafrica) e dalla National Geographic Society. Presto saranno resi noti sulle riviste scientifiche specializzate informazioni ancora più dettagliate (la rivista internazionale National Geographic ha annunciato un numero speciale entro ottobre 2015).
Notizie così non si danno tutti i giorni, almeno in paleoantropologia. Homo naledi è stato analizzato da un’equipe internazionale coordinata dal noto paleoantropologo Lee Berger (nel gruppo anche un italiano, Damiano Marchi dell’Università di Pisa). Nelle caverne di Rising Star sono emersi resti fossili sia di adulti che di bambini, e molti indizi lasciano intendere che possa trattarsi di una specie di protonecropoli (i corpi, infatti, sembrano deposti intenzionalmente, come in ossequio a un rituale). Si tratta solo di una suggestiva supposizione, dato che le prime forme di pratica funeraria risalgono com’è noto a 200.000 anni fa, tuttavia una così grande concentrazione di corpi in uno stesso luogo fa molto riflettere; al momento si possono solo avanzare ipotesi: una caduta accidentale con fatale intrappolamento, o una tana di un grosso animale carnivoro, oppure i postumi di un’inondazione o di un fenomeno sismico, certo quella della protonecropoli si profila come l’ipotesi più remota. Gli scavi nel complesso e intricato sistema di caverne sono tutt’ora in corso, e non si esclude che possano affiorare altri resti fossili significativi (l’indagine, d’altra parte, non è partita che da due anni).
Un nuovo prezioso antenato, uno zio d’Africa, va a popolare la nostra intricata e lontana parentela, ma ci vorrà del tempo (anni di studi e di meticolose comparazioni) prima di poter raccontare compiutamente la sua storia. Quel che casualmente (e parzialmente) emerge dalle avare viscere della terra non è che una traccia infinitesimale dell’estinta protoumanità, e va da sé che in ambito paleoantropologico tirare le somme è sempre azzardato. Tutto è andato perduto, o quasi. Ed è su quel “quasi” (miracoloso!) che si fonda lo studio sulle nostre origini. Vero è che in questi ultimi tre decenni tante nebbie si sono diradate, e Homo naledi non è che l’ultimo, meraviglioso, raggio di luce.
Cecily P. Flinn
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 24 – Settembre 2015.
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